Foto Ap, via LaPresse

si torna a salire

In montagna il Tour de France è un lungo viaggio geologico a pedali

Giovanni Battistuzzi

Oggi la Grande Boucle si arrampica sul Massiccio del Giura fino alla cima del Grand Colombiere. Sabato e domenica la prima due giorni alpina. Il fil rouge che unisce il ciclismo e le rocce

È alzando lo sguardo verso il cielo quando si è in mezzo ai colli che anticipano le montagne, mentre si scorgono cime e creste lontane, ma in avvicinamento, che si inizia a comprendere perché è lì, soprattutto lì, che il ciclismo trova il suo ambiente, la sua forma migliore. Non era scontato che accadesse. Il secolo lungo della bicicletta è iniziato in pianura, è diventato un romanzo ascensionale quando da mezzo di trasporto si è evoluto in strumento di esplorazione della resistenza umana alla fatica e alla velocità.
È in montagna che il ciclismo spessa diventa qualcosa di memorabile, anche se ultimamente, con certa gente in gruppo, non servono nemmeno le montagne, basta una salitella, un monticello, un piccolo poggio, per vedere scatti, invenzioni, gesta appassionanti. Eppure è lì, in montagna, soprattutto nelle corse a tappe di tre settimane, che il ciclismo capisce di essere della stessa sostanza della montagna, di essere geologico, geomorfologico, orografico. A volte cosmogonico come questo Tour de France: ovunque incontra un rilievo – è successo anche ieri nel corso della dodicesima tappa – si arriva dritti al centro del nostro amore per la bicicletta, all’origine della nostra passione, cosmo, per questo sport.

Ora le montagne ritornano protagoniste alla Grande Boucle, le altimetrie da oggi si fanno più tormentate, gli scenari cambiano, i campi diventano pascoli, gli alberi si modificano, le foglie diventano aghi, gli stessi che sembrano penetrare sotto pelle nei polpacci e nei quadricipiti, nei polmoni, dando quella sensazione di totale bollore interno. Si inizia con il Massiccio del Giura, la sinuosa imponenza del Grand Colombier. Poi sarà il momento delle Alpi, dei prati verdi e dei laghetti celesti del Col de Joux Plane, sabato, e delle vette rocciose del Dômes de Miage e del Têtes des Bellaval che guardano dall’alto Domancy e più su Saint-Gervais-les-Bains, domenica.

Le rocce sono un richiamo irresistibile, sono, con il mare, l’unico luogo irraggiungibile per una bicicletta. Sussurrano a chi pedala vieni a prendermi. Per questo ci avviciniamo a loro il più possibile. Guardare una corsa a tappe è come guardare  tutte le rocce.

È sedimentario il ciclismo, un sovrapporsi di sedimentazioni di fatica e scatti, un accumularsi sul fondo dei muscoli di tentativi andati bene e andati male, di scatti, fughe, cadute, rincorse. E di ambizioni svanite, agguantate, che sembravano perse e poi, a volte, ricompaiono quando ormai le speranze erano scomparse.

È vulcanico il ciclismo, un’esplosione di scatti e controscatti, di tentativi che sembravano illusori e che invece, chilometro dopo chilometro hanno preso forma, soprattutto sostanza. Il gruppo che si frantuma, che si sparge per le strade come fossero lapilli lanciati nell’aria dal cratere.

È metamorfico il ciclismo, nell’incedere verso l’arrivo cambia, si evolve, si trasforma. E trasforma le nostre attese, incentiva la nostra passione, il nostro desiderio di essere lì, a bordo strada o a bordo divano, perché quando la corsa si accende, accelera il ritmo, si finisce sempre a stare “in punta di cuscino”, busto in avanti, quasi a voler entrare nello schermo e stare lì, con loro, a spingerli con lo sguardo e gli allez.

È sempre, soprattutto, carsico il ciclismo. Un accumularsi di grotte e aperture sotterranee, luoghi buoni dove accumulare risorse extra da poter tirare fuori quando  sembra di aver dato tutto. Vale per tutti i corridori della domenica, vale soprattutto per i corridori che si dannano gambe cuori polmoni animo per vincere una tappa, un Tour de France. Va sempre a finire che alla fine vince chi ha più cavità, chi ha le doline più profonde. Pedalare è esteriore per movimento, è molto spesso soprattutto interiore per capacità di pescaggio di quel qualcosa in più che gli altri non riescono a pescare. Soprattutto in montagna.