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Il Foglio sportivo

“Io, Pelé, Rivera e Annamaria”. Da Piracicaba al mondo: intervista a José Altafini

Antonello Sette

La vita leggendaria dell'ex attaccante brasiliano. “Nel pallone non c’è più la poesia. Oggi si corre e basta. Quando giocavo era un’altra cosa”

La vita di José Altafini non è stata una sola. La sua leggenda si è intrecciata con quelle di Pelé, Rivera, Sivori, Cesare Maldini e Annamaria. Ha cominciato sulle strade polverose di casa sua, è diventato re d’Europa a Wembley, ha attraversato il calcio sudamericano ed europeo lasciando il segno dovunque. “Ero ancora un bambino e già rincorrevo un pallone insieme ai miei amici per le strade e le piazzole di Piracicaba, la città dello stato di San Paolo, dove sono nato. A piedi nudi e il cuore colmo di felicità”. Quel bambino da grande, una volta indossate calze e scarpe, ha poi giocato di fianco a Edson Arantes do Nacimento, detto Pelé, Nils Liedholm, Gianni Rivera, Dino Zoff e Omar Sivori. Ha incendiato le folle. È diventato una leggenda vivente. José Altafini, da Piracicaba, va ancora di corsa, perché la vita non può aspettare. Specie ora che sta per tagliare il traguardo delle 85 candeline (il 24 luglio). Con lui proviamo a fare un volo pindarico. Dalle strade di Piracicaba saltiamo, tutto d’un fiato, sino al primo giorno fatidico della sua vita da fuoriclasse predestinato. È il 29 giugno 1958. Al Rasundastadion di Solna, nei pressi di Stoccolma, il Brasile batte in finale la Svezia per 5 a 2 e si laurea campione del mondo.  

 

Il primo gol, realizzato da Liedholm, i telespettatori italiani non fanno in tempo a vederlo.  Il collegamento internazionale parte al dodicesimo minuto. Erano il mondo e il calcio di ieri…
“Non avevo neppure 20 anni ed ero già campione del mondo. All’inizio ero io il titolare e feci in tempo a segnare in fretta e furia due gol. Sono stato il pioniere di quella squadra straordinaria, perché il primo gol brasiliano dei Mondiali del ’58 l’ho realizzato io. Poi, però, persi il posto il posto a vantaggio di Vavà. Allora si giocava in undici. La panchina non l’aveva ancora inventata e restai irrimediabilmente fuori”.

In quella squadra, da molti considerata la più forte di sempre, giocava un certo Pelé, che aveva due anni meno di lei. Che ricordi ha di quel diciottenne figlio unico del dio talento, che del calcio sarebbe diventato O Rei?
“Pelé era già fortissimo, ma non ancora famoso. Quella finale del 29 giugno 1958 fece da spartiacque. Prima era un ragazzo che dava del tu al pallone. Dopo un fuoriclasse riconosciuto a livello planetario. Nessuno ha mai giocato a calcio meglio di lui. È stato il più grande di sempre e sono convinto che non potrà mai essere eguagliato”.

Da Stoccolma a Milano. Lei è arrivato al Milan, da campione del mondo, per 135 milioni. E fu subito gloria. Quattro gol in un derby con l’Inter e quattro alla Juventus. Lo scudetto. Ne seguirà un altro nel 1962 e la Coppa dei Campioni l’anno, dopo a Wembley in un’epica finale contro il Benfica di Eusebio, con due suoi gol…
“Ho fatto quattro gol all’Inter, alla Juventus e anche al Santos. Non esiste un altro calciatore, che abbia fatto quattro gol a queste tre squadre in un’unica partita”.

Che cosa ricorda della finale di Wembley, vinta dal Milan contro ogni pronostico?
“Sono stato ancora una volta un pioniere. Grazie ai miei due gol, per la prima volta una squadra italiana ha alzato al cielo la Coppa dei Campioni. Non eravamo favoriti perché il Benfica veniva da una stagione favolosa e dalla vittoria ottenuta l’anno prima nella finale contro il Barcellona, ma riuscimmo a ribaltare alla grande lo svantaggio, maturato nel primo tempo, e a trionfare. Come dissi a caldo, se non fosse stato per i crampi, avrei voluto e potuto segnare anche un terzo gol. In quella edizione della Coppa dei Campioni di gol ne realizzai in tutto 14”.

In quella partita fece grandi cose anche un giovanissimo Gianni Rivera…
“Rivera era un giocatore straordinario. Lui e Roberto Baggio sono stati i più grandi calciatori italiani di tutti i tempi”.

Quale era il compagno di quella squadra più forte e quale quello a cui lei era più legato? 
Per me c’era e c’è solo Cesare Maldini, il mio capitano. Unico e inimitabile”.

Corrisponde a verità la storia di lei, che si nasconde dietro un divano per sfuggire all’ira dell’allenatore Gipo Viani? 
“Sono solo cazzate e non ne voglio neppure parlare”.

Si sente ancora rossonero?
“Ho giocato in altre grandi squadre, ma il Milan resta qualcosa di speciale. È stato il primo club ad accogliermi in Italia e anche l’ultimo, nel senso che il rapporto con la società e i tifosi non si è mai, neppure a distanza di tanti anni, interrotto. Anche a Napoli e a Torino con la Juve ho vissuto stagioni bellissime, ma il Milan è stata la mia vita. Al Milan sono arrivato che ero ancora un ragazzo e sono diventato un uomo”.

Dal 1961 al 1962, lei ha giocato come oriundo nella Nazionale italiana. Poi, dopo la disfatta di Santiago contro il Cile, gli oriundi furono allontanati e lei si ritrovò fuori dal giro delle Nazionali. Con il senno di poi fu errore lasciare il Brasile per l’Italia?
“A 24 anni ero fuori da tutte le Nazionali. Nel Brasile non potevo tornare. Mi è dispiaciuto molto. È stata una grande delusione”.

Tre anni dopo quella delusione il Napoli acquistò lei dal Milan e Omar Sivori dalla Juventus?
“Al Napoli con Sivori fu un anno bellissimo. Trovammo subito l’intesa giusta. Arrivammo secondi e riportammo, dopo tanti anni, ottantamila persone al San Paolo. Vedere tutta quella gente, pazza di noi, fu una soddisfazione enorme”.

Il primo dicembre 1968 Sivori fuggì da Napoli, dopo una lunga squalifica, seguita a una maxi rissa in una partita contro la Juventus, mentre lei rimase sino al 1972, quando si trasferì, da svincolato a zero lire, proprio alla Juve per la sua ultima grande avventura. Lei resta, oltre a tutto il resto, il prototipo del subentrante ideale. Entrava, toccava due palloni e al terzo segnava, come a nessun altro è mai capitato…
Oltre a segnare tanti gol da subentrato, con la Juve ho vinto anche due scudetti. A 34 anni è stata una gran bella soddisfazione e una rivincita con chi mi aveva bollato come un giocatore finito”.

 

Quale è il gol più bello di José Altafini?
“Il secondo dei due segnati a Wembley il 22 maggio 1963, perché di gran lunga il più importante. Fu il gol dell’apoteosi. Il gol che portò per la prima volta una squadra italiana sul tetto d’Europa. Un delirio, che ti resta dentro per sempre”.

E quale l’attimo che non potrà mai dimenticare?
“Io non dimentico nessuno degli attimi che ho vissuto. Io non dimentico niente. Ricordo tutto: partite, azioni, gol, abbracci…”.

Che cosa le piace, oltre il pallone?
“Mi piace lavorare, essere attivo e sempre in movimento. È stata, e continua a essere, la cosa più bella. Il riposo non fa per me”.

Le donne sono state importanti nella sua vita?
Le donne? Dica la donna, che è meglio. Alla fine della fiera, c’è stata una sola donna. Sto con Annamaria da più di mezzo secolo. La mia vita è mia moglie. È lei il mio punto di riferimento. È lei il mio gol più bello. Non ce ne sono state altre”.

Ha un amico del cuore?
“Un grande amico è il mio cardiologo, ma ce ne sono altri tre o quattro altrettanto importanti. Sono i miei angeli custodi. Quando li chiamo, accorrono sempre”.

La saudade non è mai stata un problema?
Gli italiani sono molto simili ai brasiliani. I napoletani, in particolare, sono praticamente uguali. Gol a parte, ho fatto qui la stessa vita che avrei fatto là”.

 

Quando pensa alla musica, chi le viene in mente? 
“La musica mi piace tantissimo. Ho anche cantato qualche canzone. Mi piace la musica romantica. Amo i cantautori italiani, come Francesco De Gregori e Gino Paoli. Mi piaceva tanto anche Pino Donaggio. Fra i brasiliani il mio preferito è, senza dubbio alcuno, Roberto Carlos, detto “O rei”, proprio come Pelé. Non è mai troppo tardi per continuare a trarre da loro spunti di vita. A differenza del calcio, la musica seguita a essere poesia”.  

Non le piace il calcio di oggi?
Assolutamente no. La poesia l’hanno messa al bando. Oggi si corre. Si corre e basta”.

C’è un calciatore in cui si immedesima?
“Non ho mai fatto paragoni e continuerò a non farli”.

La vita le regalato tutto. Oltre l’immaginabile. C’è, però, qualche ostinato rimpianto che resiste dentro di lei?
“Non ho rimpianti. Potevo fare di più, ma è andata benissimo così. Io ho conservato dentro di me solo le cose belle. Quelle brutte le ho cancellate per sempre”.

Le capita ancora di sognare?
“Non so se sogno ancora. L’importante è che non ho né incubi né rimorsi. José Altafini da Paracicaba ha avuto una vita meravigliosa ed è in pace con se stesso”.
 

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