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Il Foglio sportivo

Allegri è al punto di non ritorno: è vietato sbagliare 

Marco Gaetani

Due stagioni senza trofei sono un’eresia in casa Juve. Come sta preparando, l'allenatore della Vecchia Signora, la ripartenza più difficile della sua carriera

Con il volto più scavato del solito, la parlantina meno sciolta e la sensazione di un paesaggio circostante alle prese con un graduale quanto inesorabile smottamento, Massimiliano Allegri ha chiuso la stagione come uno di quei velocisti alle prese con l’ultimo tappone di montagna dei grandi giri: da un lato la fatica disumana per rientrare nel tempo massimo, dall’altro la consapevolezza di avere lasciato il peggio ormai alle spalle, in attesa di vedere il traguardo finale sul quale tornare a far splendere il proprio passo. Mai, nemmeno in quelle ore di penalizzazioni e patteggiamenti, di eliminazioni brucianti e sconfitte incassate senza la parvenza di un appello, ha mostrato però un cenno di esitazione in merito alla sua volontà di resistere alla tempesta: sarebbe stato ancora lui il condottiero bianconero, aggrappato ferocemente alle sue convinzioni e anche, a onor del vero, a un contratto forse troppo pesante da lasciare sul tavolo a cuor leggero in caso di passo indietro deciso in autonomia. 

Dopo anni in cui non solo le sue scelte, ma anche la retorica e la capacità di alzare trofei sono apparse decisamente appannate, in vista c’è l’anno zero, quello della rifondazione e dell’ultima spiaggia. L’attesa per il verdetto Uefa, che dovrebbe arrivare entro metà luglio, non muta gli scenari: che la Juventus partecipi o meno alla prossima Conference League, l’obiettivo supremo dei bianconeri sarà il ritorno alla vittoria in patria, e difficilmente una Coppa Italia potrebbe salvare il triennio di Allegri. Il tecnico toscano dovrà puntare al bersaglio grosso dopo due anni a secco, facendo diventare straordinario quello che, almeno fino a qualche stagione fa, veniva invece accolto con la bocca storta. Lo scudetto che torna a essere oggetto del desiderio: sia a lui, sia a Sarri, fu mostrata la porta dopo la vittoria del campionato. Troppo assillante l’ossessione europea, la Champions League come unico obiettivo degno di essere chiamato tale. Ora, dopo stagioni spese guardando vincere il campionato a Inter, Milan e Napoli, per la Juventus quel triangolino tricolore da apporre sulle maglie ha assunto nuovamente un sapore dolce, come quando fu Marcello Lippi a riportarlo in auge sul bianconero alla metà degli anni Novanta dopo un digiuno durato otto stagioni. 

Pur di guidare questa operazione rilancio, Allegri avrebbe deciso di rinunciare a un’offerta faraonica proveniente dall’Arabia: il condizionale, in questi tumultuosi giorni di mercato in cui l’Europa ascolta le sirene saudite con un mix di stupore e malcelato sdegno, rimane comunque d’obbligo. Ripartirà in uno scenario complicato, con i tifosi furiosi per il terremoto provocato dal caso plusvalenze ma anche infastiditi da una gestione tecnica che nel biennio è parsa confusionaria, tra talenti appassiti e risultati di campo mai all’altezza delle risorse investite. L’Allegri bis, nato anche da un’onda reazionaria a livello comunicativo, dai monologhi sul “calcio semplice” e da quell’importanza del senso di vittoria da anteporre a tutto il resto, assecondando la massima cara a Boniperti, si è accartocciato proprio venendo meno a quei principi: le formazioni sempre diverse, la bacheca rimasta vuota in maniera desolante, la sensazione di un eterno tentativo di ritorno ai fasti del passato dimenticando però che dell’era della BBBC (Buffon-Barzagli-Bonucci-Chiellini) non è rimasto che un solo esponente, peraltro inevitabilmente distante rispetto a quello del periodo di massimo fulgore. Allegri ha dunque provato la virata, insospettabile e poco credibile: “Sapevo che era difficile vincere quando sono tornato, se avessi voluto vincere sarei andato altrove”, ha detto al termine di una stagione resa indubbiamente più complessa dalla bislacca gestione delle penalizzazioni prima inflitte, poi tolte, quindi riassegnate quando all’orizzonte si vedeva già la bandiera a scacchi.

Ora dovrà sedersi al tavolo con quello che, a meno di ribaltoni imprevedibili, sarà il nuovo architetto del mercato bianconero, Cristiano Giuntoli, uno cresciuto da calciatore prendendo a spallate i centravanti tra i dilettanti e poi arrivato a sedere sul trono del calcio italiano da dirigente con una capacità organizzativa che rappresenta il trionfo della pazienza. Un maniaco del controllo, stando a chi gli è stato vicino, che si dedica in maniera ossessiva a qualsiasi aspetto del gioco, dalla scelta dei calciatori alla verifica dei ciuffi d’erba del campo di allenamento. Un direttore sportivo vecchio stampo chiamato a lavorare fianco a fianco con l’alfiere del corto muso, in una stagione che rischia di rivelarsi decisiva per entrambi: per il ds, perché lavorare alla Juventus non è un incarico qualsiasi; e per l’allenatore, perché per trovare un tecnico bianconero confermato dopo due anni senza trofei bisogna andare a prima della Seconda guerra mondiale, con i casi di Jeno Karoly e Virginio Rosetta. Un punto di non ritorno e l’opportunità di sferrare l’assalto allo scudetto senza quell’obiettivo opprimente che ha inquinato anche gli anni più gloriosi della gestione di Andrea Agnelli: tornare a esercitare l’egemonia in Italia è l’unica strada per darsi un senso anche all’estero. Senza più alibi, effettivi o ricercati ad arte.

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