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La finale

La Roma non ha perso a causa dell'arbitro: è crollata sotto il peso del suo passato  

Francesco Stocchi

A Budapest, i giallorossi escono sconfitti dalla sfida con il Siviglia ad un passo dal riscatto di quella finale persa nel 1984 con il Liverpool, sempre ai calci di rigore

Alla fine la Roma non ce l’ha fatta. Dopo una finale infinita, forse la più lunga della storia delle coppe europee, la squadra di Mourinho si è vista sconfiggere ai calci di rigore dall’ottimo Siviglia. Al triplice fischio finale che delegava al fato dei rigori la scelta della vincitrice del trofeo, i tifosi intorno a me presenti sugli spalti si sono guardati negli occhi. “E’ ora di cambiare il corso della storia”, sento dire accanto a me. Facce gravi, stanche, cariche di tensione, avvolte dal silenzio generale e così distanti dai bonari auguri di “buon divertimento” ricevuti alla nostra partenza da Roma. Il riferimento al cambiamento storico è alla finale persa con il Liverpool, nel lontano 1984, sempre ai calci di rigore. Quarant’anni e non sentirli, tanto quella sconfitta significò per un intera città, un evento che rientra nell’educazione sentimentale che ogni tifoso romanista riceve. Quindi, anche i ventenni presenti mercoledì si sentivano partecipi di un momento in cui la storia poteva essere vendicata. Invece la Roma perde la coppa non per la superiorità dell’avversario, neanche per causa di un arbitraggio scadente e forse soggetto a rancori personali, non perde neanche per la sfortuna che può determinare l’esito di una partita. La Roma crolla sotto il peso del suo passato reso ingombrante da una passione viscerale, onnicomprensiva, romantica, a tratti cafona, illogica, antidoto ai mali che la città esprime e incomprensibile quando percepita dall’esterno. Un passato ingombrante che non sembra lasciare spazio a progetti futuri, oltre che al sogno di liberarsi dai fantasmi che continuano ad abitarlo. Manca un processo di maturità che avrebbe un caro costo, quello dell’anestetizzare la passione di cui si è oggetto e diluirla al di là del proprio popolo (vedi Juventus) per essere liberi di adottare il motto mahleriano – La tradizione è custodia del fuoco. Non culto delle ceneri – in senso promulgativo per il futuro.

Mercoledì tutti i rioni e quartieri di Roma erano presenti allo stadio “Puskas” di Budapest, rappresentati dalle “pezze” giallorosse in nome di un popolo che si identifica con la città e con la sua storia unica, lasciando quel lieve margine di utilitaristica esistenza all’altra squadra, in rappresentanza dell’eterna dicotomia che abita il mito come la storia, in particolare in quella di Roma con Romolo e Remo. Proprio quest’esodo incondizionato da Roma per la finale con il Siviglia, mi aveva lasciato qualche dissapore che ho preferito però inibire. Tanti tifosi romanisti provenienti anche da varie parti dell’Europa, tifosi non regolari frequentatori di stadio, tantomeno di trasferte ha sentito il dovere di esserci come quando ci si presenta all’appuntamento con la storia. Tutta questa presenza, espressa nella bonaria spavalderia romana con l’avere già la vittoria in tasca ha caricato l’ambiente, la squadra e la tifoseria di una tensione eccezionale. Malgrado la loro superiorità numerica -si è parlato di vero e proprio esodo- i tifosi romanisti erano tutti troppo irrequieti per dar libero sfogo alla loro gioia e sostegno. Eppure la squadra, che compensa i limiti strutturali con carattere e grinta agonistica, ha affrontato la partita in maniera stoica, che per poco non è diventata storia. Una squadra che si identifica con la sua tifoseria, quindi con la sua città, espressione di una passione tragica e come la tragedia finisce male. Ma alla fine ha ragione Matic, quando a fine partita consola un Dybala piangente, come un padre lo abbraccia, gli sorride guardandolo negli occhi e ridimensiona la sofferenza dicendogli: “Questo è il calcio”.

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