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a Budapest

Nella finale di Europa League, la Roma contro il Siviglia rincontra il suo distruttore: Monchi

Andrea Romano

Nel 2017 il direttore sportivo venne accolto come una rockstar, una specie di mago degli acquisti e delle cessioni, l'uomo giusto per rifondare una squadra che sognava in grande. Andò malissimo

C’è un’idea che le pellicole a stelle e strisce vanno ripetendo incessantemente da oltre un secolo. Tanto da averla ormai cristallizzata in un topos letterario. Perché ogni crescita individuale passa necessariamente per l’abbattimento della propria paura più tetra. Sarà così anche per la Roma, il club che per diventare grande davvero e alzare al cielo l’Europa League dovrà sconfiggere il Siviglia di Ramón Rodríguez Verdejo detto Monchi, l’uomo che quattro anni fa l’aveva smontata un pezzo alla volta, dilapidandone il talento. Una cessione dolorosa dopo l’altra. Un acquisto sbagliato dopo l’latro

La storia inizia nel 2017, quando Monchi viene accolto nella Capitale non come un direttore sportivo, ma come una rockstar. I suoi occhiali a specchio e le sue giacche destrutturate diventano subito un marchio di fabbrica, simbolo di successo. Un po’ Re Mida un po’ Capofortuna di Rino Gaetano, la sua figura è attorniata da un’aura di inscalfibile infallibilità. Tutto quello che tocca diventa oro. Tutte le plusvalenze che genera si convertono in trofei. D’altra parte è pur sempre l’uomo che ha trasformato un club dalla tradizione europea inesistente in una squadra capace di vincere cinque edizioni dell’Europa League. E ora tutti si aspettano che possa copincollare la sua formula magica anche nel club di Pallotta. 

La sua conferenza stampa di presentazione passa alla storia. "Il problema non è vendere, ma comprare male", dice. "La Roma non ha un cartello con scritto ‘se vende’. ha un cartello con scritto ‘se gana’, si vince", giura. L’entusiasmo è alle stelle. Pochi mesi dopo viene pubblicato un libro. Si intitola semplicemente “Monchi” ed è stato scritto dal giornalista spagnolo Daniel Pinilla. A metà strada fra la vita dei santi e il volantino pubblicitario, il volume spiega nel dettaglio il “metodo” del dirigente. E lo fa tramite un eccesso di melassa, utilizzando espressioni come "l’eccellente occhio critico di Monchi" oppure "L’obbligo di un buon direttore sportivo, e Monchi lo è (…)" o ancora "L’abile gestione del nostro direttore sportivo". L’uomo di Siviglia diventa così un santone e un santino insieme, una figura attorniata da pura luce.

Eppure nella sua prima campagna acquisti in giallorosso, Monchi avvia quell’opera di scialacquamento dell’eredità ricevuta da Walter Sabatini. Il ds vende Mario Rui, vende Rüdiger, vende Paredes, vende Salah. Fanno oltre cento milioni da poter reinvestire sul mercato. Ed è proprio questo il problema. Il mercato portato avanti da Monchi è sballato, quasi grottesco. Arrivano Héctor Moreno, Karsdorp, Gonalons, Kolarov, Under e Pellegrini (sfruttando il diritto di riacquisto che la Roma aveva inserito nel contratto col Sassuolo). Ma è l’attacco il reparto che viene più rafforzato. O forse no. Per il 4-3-3 di Di Francesco serve un esterno destro che possa sostituire Salah, ceduto al Liverpool per 50 milioni. Monchi è sicuro di poter sfilare Riyad Mahrez al Leicester. Ma vuole farlo alle sue condizioni. Così inizia una trattativa infinita che dopo settimane intere scoppia come una bolla di sapone. Serve un piano B. Che il direttore sportivo individua in Defrel (pagato 23 milioni dal Sassuolo). Ma non basta. La rosa della Roma ha bisogno anche di un titolare. Monchi allora chiama la Sampdoria. E acquista Patrik Schick per 42 milioni di euro. Addirittura più di quanto i giallorossi avevano speso per Batistuta. Piccolo dettaglio: né Defrel né tantomeno Schick sono due esterni d’attacco di ruolo. Il loro apporto alla Roma sarà pressoché nullo. Il francese segna 1 gol in campionato perché Dzeko decide di lasciargli un rigore. Schick ne realizza 5 in due anni. La Roma arriva in semifinale di Champions League, ma è chiaro a tutti che si tratta del canto del cigno.

La stagione successiva Monchi compie il suo capolavoro al contrario. Stavolta il ds tratta con il Bordeaux per Malcolm. Sembra tutto fatto. Tanto che i francesi invitano Monchi twittare che il brasiliano è salito sull’areo con destinazione Roma. Sembra il lieto fine. Solo che il Barcellona legge il cinguettio e decide di chiudere con il giocatore. E così il re delle trattative scopre di esser stato raggirato pubblicamente. Il resto della campagna acquisti è imbarazzante. Perché Monchi tradisce tutti i punti del suo “metodo”. Vende Alisson, Nainggolan e Strootman. E accoglie Mirante, Olsen, Fuzato, Bianda, Marcano, Santon, Coric e Kluivert. I pezzi più pregiati del mercato però sono altri. Arrivano Cristante e Zaniolo, ma anche Nzonzi (pagato 30 milioni), Pastore (25). Due giocatori sui trent’anni, con cartellini esosi e stipendi pesanti come il piombo. La Roma si inabissa nella mediocrità. Monchi non arriva neanche a fine stagione. Si dimette lasciandosi dietro le macerie di una squadra stremata, senza più talento, senza più risorse. In tutto il ds ha bruciato quasi 270 milioni sul mercato. Ma solo Kolarov, Zaniolo, Pellegrini e Cristante hanno dato, o stanno dando, qualcosa alla Roma.

È un dato che va oltre la comune nozione di disastro. Poco dopo Monchi torna a Siviglia, il luogo dove il suo metodo sembra funzionare a meraviglia, conquistando un’altra Europa League. Che stasera potrebbero diventare due. La Roma invece si ritrova quasi in un videogioco degli anni Novanta, quando per vincere bisogna superare il “boss finale”. E quel nemico di fine livello si chiama Ramón Rodríguez Verdejo, l’uomo che era venuto dalla Spagna per fare grande la Roma ma che le ha succhiato via tutto il talento. 

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