il talento del joker

La flemma di Nikola Jokic ha reso facile l'impossibile

Francesco Gottardi

L’atipico centro serbo ha trascinato i Denver Nuggets alle prime finals di sempre. A suon di record e con un’inconfondibile atarassia sul parquet: oggi lo applaudono tutti, anche chi lo aveva frainteso

Guardi Nikola Jokic al centro di casa Lakers e sembra una vecchia foto di famiglia. Prima comunione (o prima finale Nba): i parenti acclamano in cerchio, la tavola apparecchiata di scintillanti gingilli, nel mezzo lui. Il festeggiato. E come un bambinone imbarazzato, Nikola applaude sì. Ma senza sapere bene il perché. “Cosa significa per me questo premio? Niente”, dice il fresco Mvp delle Western Conference Finals. “Lo dovrebbero assegnare ai miei compagni e agli allenatori che mi hanno messo nelle condizioni migliori”. Non c’è spocchia o inganno. Poco importa che il centro serbo abbia appena portato i Denver Nuggets a giocarsi l’anello per la prima volta nella loro storia. Poco importa che l’abbia fatto grazie a un inedito ruolino di marcia: 8 triple doppie in 15 partite di playoff, sempre con almeno 20 punti a referto. Il leggendario record di Wilt Chamberlain (7) reggeva dal 1967. Per batterlo ci è voluta la flemma del campione.

  

Non è un controsenso. Jokic ha liquidato il ticket Booker-Durant e messo in ginocchio re LeBron senza mai perdere la compostezza. E un’efficienza cestistica tutta sua: non c’era mai stato un giocatore in grado di vincere una serie playoff – semifinale ovest contro Phoenix – con 34,5 punti, 13,2 rimbalzi e 10,3 assist di media; non ce n’era mai stato uno capace di registrare una tripla doppia – gara-1 contro i Lakers – da 30-20-10 con il 70 per cento al tiro. Un concentrato di qualità e quantità “che cambia la logica di questo sport”, lo incorona perfino Magic Johnson.

   

A 28 anni, Nikola finalmente mette tutti d’accordo. È successo proprio quando il miglior cestista della stagione regolare, giuria alla mano, è diventato Joel Embiid: per il serbo sarebbe stata la terza volta consecutiva. Ma tanto non gliene frega nulla, no? Né delle targhe né delle etichette. Su tutte, la proverbiale indolenza sul parquet: spazzata via dai numeri. L’imperturbabilità è tutt’altra cosa. Si sposa con un talento anomalo. E con un soprannome tipico, ma dettato dal caso: “Joker”. Racconta Mike Miller, suo compagno di squadra tra 2015 e 2017, che quel cognome slavo fosse difficile da pronunciare per gli americani. Così l’adattò per assonanza. E fu un successo immediato.

 

Jokic, buontempone senza sbalzi d’umore, col cattivo di Batman c’entra poco. Ma si ricollega bene al joker delle carte: fa vincere le altre. A prescindere dagli angoli del campo. Sotto canestro e da playmaker, da schiacciatore di forza a fine realizzatore da oltre l’arco. Denver ha pescato quella giusta, l’ha coltivata nel tempo e ora se la tiene stretta – con tanto di contratto faraonico, altro record Nba, da 270 milioni di dollari a stagione. E Nikola va avanti per la sua strada, attento a ritagliarsi un locus amoenus fuori dal basket: cavalli, viaggi, buon cibo e niente social, “perché sono una perdita di tempo”. A squadra e giocatore ora manca solo l’ultimo atto, al primo assalto. Jokic c’è arrivato col sorriso. E un po’ di sagacia alla Boskov. “Quando hai segnato quella tripla impossibile allo scadere del terzo quarto”, gli chiedono dopo l’1-0 sui Lakers, “perché tu e Davis, che ti marcava, vi siete guardati divertiti?”. Risposta: “Perché ho avuto culo”. Che lo stesso tiro abbia portato i Nuggets in finale, tre gare dopo, è pura classe. Ma questo Jokic non lo dice.