Lorenzo Pellegrini dopo la qualificazione della Roma (LaPresse) 

Sporchi ma vincenti

Il calcio italiano indebitato e corrotto torna in cima all'Europa. Un film già visto

Francesco Caremani

Il movimento calcistico in Italia funziona come azione e reazione. Se rimaniamo imbarazzanti sotto molti profili, la nostra forza è proprio saper raggiungere un risultato dopo aver toccato il fondo: esultiamo, ma non dite Rinascimento

Tre squadre italiane nelle tre finali delle coppe europee. Non accadeva dal 1994 e anche in quel caso c’era l’Inter, che vinse l’Uefa contro il Salisburgo. Cinque nelle semifinali con cinque allenatori italiani presenti. Numeri che sanciscono la rinascita del calcio italiano? No. Questo resta indebitato, con una giustizia sportiva che non si è aggiornata ed è inadeguata per uno sport che si è industrializzato, con governance, a tutti i livelli, imbarazzanti sia sotto l’aspetto finanziario sia umano, con stadi lontani anni luce da quelli che ammiriamo ogni volta che andiamo in trasferta, con un movimento che fatica a far crescere i giovani e una Nazionale che ha mancato la qualificazione agli ultimi due Mondiali. Eppure il calcio italiano è sempre stato questo, concentrato sui risultati, ottenuti quando gli altri meno se lo aspettavano, dopo avere toccato il fondo. È accaduto nel 1982 con il Mondiale dopo lo scandalo del Totonero di due anni prima. È risuccesso nel 2006 in piena Calciopoli. Così come nel 2021, nel post Covid, riuscendo a vincere in casa dei maestri inglesi da sfavoriti. Più che un sistema calcio, fatto anche di tante cose di campo buone, quello italiano è parso un movimento costruito su azione e reazione, che ha tirato fuori il meglio uscendo dal fango, e non stiamo parlando di quello dei campi.

 

Ciò non toglie che le tre finaliste abbiano meritato di esserci, con tre approcci diversi. Italiano ha scelto la strada del gioco e delle idee costruendo una Fiorentina difficile da paragonare a quelle passate. Mourinho a Roma ha trovato un altro humus ideale, conosce la stampa italiana, la sa utilizzare a proprio vantaggio e i calciatori per lui farebbero di tutto. Riuscendo ad affermare un incredibile strappo culturale, perché adesso per i romanisti – basta dare uno sguardo ai social – l’importante è vincere, non importa come. Proprio loro, orfani di Zeman e del bel gioco: “Mai schiavi del risultato”. Inzaghi è una via di mezzo, l’Inter gioca bene perché è in forma, perché tutte le pedine, giuste, sono al posto giusto e perché alcuni giocatori sono cresciuti a dismisura, Lautaro su tutti, soprattutto dopo il Mondiale vinto. Inzaghi ha dimostrato di essere un tecnico per le coppe più che per il campionato e in una partita secca può succedere di tutto, anche se davanti hai il Manchester City di Guardiola, anzi proprio perché davanti hai la squadra più forte d’Europa.

 

E se il calcio italiano traballa tra debiti e inchieste, all’estero non se la passano certo meglio. Il City è finito sotto indagine dell’Uefa e della Premier League. Il Barcellona campione di Spagna deve rispondere dell’accusa – se sarà dimostrata – di avere corrotto gli arbitri nei decenni passati. Il Psg vive nell’imbarazzo riflesso della proprietà e anche il Bayern Monaco è finito sotto la lente della polizia federale, per sospetto riciclaggio di denaro da parte di un oligarca russo, intimo amico del presidente Hoeness. Nel 1990, alla vigilia del Mondiale casalingo, le squadre italiane in finale erano quattro e vinsero tutte e tre le coppe europee di allora: Coppa dei Campioni, Coppa delle Coppe e Coppa Uefa, rispettivamente Milan, Sampdoria e Juventus. I danni economici e impiantistici di quella manifestazione li abbiamo pagati nei decenni successivi e, a parte qualche eccezione, il calcio nelle piazze più importanti continuiamo a guardarlo dentro gli stadi progettati oltre trent’anni fa. Quindi, godetevi il momento ma non parliamo di Rinascimento. Perché siamo sempre noi, quelli capaci di tirare fuori il meglio nelle emergenze, ma pessimi a progettare un sistema che funzioni nel tempo, al grido: “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”.