Foto Ansa

a istanbul

Idee pazze per urlare, il 10 giugno, nello stadio di Ataturk, forza Inter e forza Europa

Claudio Cerasa

Un armeno in campo davanti a Erdogan e un omaggio ad Hakan Sukur. Ragioni per trasformare la finale di Champions anche in uno spettacolo di difesa della libertà

Il calcio, si sa, spesso ci aiuta a capire il mondo e la scelta di disputare la finale della Champions League a Istanbul, in Turchia, il prossimo 10 giugno, è un’occasione ghiotta per provare irresponsabilmente a mescolare politica, geopolitica, equilibri internazionali e mondo del pallone. La prima domanda che ci si potrebbe porre è che cosa diavolo c’entri la Turchia con le competizioni europee e la risposta in questo caso è semplice: per provare a contare qualcosa nel calcio, diversi paesi asiatici hanno scelto negli ultimi decenni di salire sul taxi europeo per avere una maggiore visibilità. Paesi come l’Azerbaigian, l’Armenia, la Georgia, il Kazakistan e paesi come la stessa Turchia. Dove però il calcio, specie nella stagione di Erdogan, stagione che solo il 28 maggio sapremo se continuerà oltre i vent’anni appena trascorsi, è divenuto non una semplice scialuppa di salvataggio, utile a garantirsi maggiore prestigio, ma uno strumento di propaganda, utile a esercitare il potere, in patria, e utile a garantirsi una maggiore legittimazione internazionale, fuori dai propri confini. E’ così oggi, ovviamente, ma è stato così anche nel passato.

Erdogan, ai tempi del referendum con cui ha trasformato la Turchia in una Repubblica presidenziale, scelse Arda Turan, ex capitano della Nazionale turca ed ex giocatore di Barcellona, Galatasaray e Atletico Madrid, come testimonial del sì. E in suo onore, una delle squadre più famose della Turchia, l’İstanbul Basşakşsehir, acquistata da un imprenditore vicino al presidente, Göksel Gümüşdağ, esponente del partito di Erdogan e sposato con una delle nipoti di Erdogan, che anni fa scelse di ritirare la maglia numero dodici della squadra in segno di rispetto nei confronti del dodicesimo presidente della Repubblica turca, cioè Erdogan. Erdogan, ovviamente, non ha bisogno del calcio per avere una sua legittimazione, e la guerra in Ucraina, come è noto, ha ridato una formidabile centralità diplomatica alla sua Turchia.

 

Ma in ogni caso osservare il rapporto ossequioso costruito dalla Turchia con gli organismi del calcio europeo può essere interessante per ragionare intorno al modo in cui, attraverso il calcio, l’Europa riesce a esercitare la sua capacità attrattiva, anche nei confronti di quei paesi che l’Europa nel quotidiano tendono a disprezzarla. E’ difficile pensare che attraverso la contaminazione calcistica europea, per così dire, la Turchia possa fare passi in avanti nel processo di emancipazione dall’illiberalismo perpetrato da Erdogan. Ma allo stesso tempo, proiettandoci al 10 giugno, alla finale di Istanbul, è altrettanto difficile non pensare che il calcio, che spesso sfugge al controllo di chi lo vorrebbe dominare, ha mostrato spesso di essere un formidabile strumento di mobilitazione per chi tenta di dare un segnale contro i regimi illiberali. E per questo, avvicinandoci a quella data, non si può non pensare che sarebbe un sogno veder correre un armeno come Henrikh Mkhitaryan, centrocampista dell’Inter, oggi purtroppo infortunato, di fronte a chi, come la Erdogan Associati, continua a negare il genocidio armeno. E sarebbe un sogno, prima della partita, veder scorrere sugli schermi dello stadio di Istanbul, stadio dedicato al principe rimosso del laicismo turco, Atatürk, le immagini di alcuni giocatori che hanno fatto la storia dell’Inter.

 

Compreso quell’Hakan Sukur, ex stella dell’Inter, ex parlamentare turco, accusato senza prove da Erdogan di aver complottato contro di lui nel 2016, ai tempi del colpo di stato, e costretto a trasferirsi con la famiglia prima in California e infine a Washington, dove oggi vende libri e lavora per Uber, dopo essere stato raggiunto, nello stesso anno, da un ordine di arresto nei suoi confronti spiccato proprio da Erdogan. Mischiare calcio e politica è un errore, lo sappiamo, e chiediamo scusa a Jack O’Malley, ma riuscire a trasformare la finale di Champions anche in uno spettacolo di difesa della libertà, oltre che di calcio, sarebbe una ragione in più per poter dire, il 10 giugno, forza Europa e forza Inter.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.