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Sei Nazioni 2023

Massimo Giovanelli ci racconta i segreti della Scozia del rugby

Marco Pastonesi

"Gli scozzesi sono fortissimi nel gioco rotto, cioè aggressivo, sporco, da guerriglia. Ci vorrà cuore, ma anche testa. E non disperdere quello che di buono avevamo costruito e mostrato". Intervista all'ex capitano della Nazionale italiana 

La Scozia, la prima a entrare in campo internazionale, il 27 marzo 1871, a Edimburgo, nel cricket club degli Academicals, un rettangolo verde di pioggia e vento, quattromila curiosi e patrioti, due tempi di 50 minuti ciascuno, 20 scozzesi contro 20 inglesi. La Scozia, la prima a vincere, 1-0, a quel tempo valevano solo i calci e le mete servivano a tentare (“try”) la trasformazione decisiva. La Scozia, la patria di Ned Haig, professione macellaio, non sul campo ma in una bottega, inventore del rugby a sette a Melrose; la patria di Jock Wemyss, pilone, che aveva perso un occhio durante la Prima guerra mondiale, e a chi gli chiedeva quanti errori avesse commesso giocando, rispondeva che lui ne aveva visti solo la metà di quelli che gli attribuivano; la patria di Jim Telfer, giocatore e poi allenatore, che sosteneva che “otto giocatori in una ruck sono pura poesia in movimento”. La Scozia, proprietaria, almeno secondo la leggenda, del mitico cucchiaio di legno in un castello delle isole Orcadi. La Scozia, l’ultima avversaria dell’Italia nel Sei Nazioni 2023 (sabato alle 13.30, a Edimburgo e su SkySport1 e Tv8), ma anche la prima nel torneo del 2000.

   

“Una lunga storia d’amore – racconta Massimo Giovanelli, 60 presenze in Nazionale di cui 37 da capitano – Con la Scozia ce la giocavamo già da una decina d’anni, tanto da diventare il termine di misura fra i mondi accessibili, considerando che Inghilterra e Francia, per numero di praticanti e qualità di giocatori erano irraggiungibili. E proprio con la Scozia risale la mia prima partita da capitano, nel 1992, a Melrose, sconfitti 22-17, ma anche due vittorie, a Rovigo 18-15 nel 1993 e a Treviso 25-21 nel 1998. Il 5 febbraio 2000, al Flaminio, dove gli spettatori li senti addosso, occhi e fiati, loro erano i campioni uscenti, noi i debuttanti. Nello spogliatoio, anche se non ero più il capitano della squadra, feci il discorso ai compagni ricordando che andavamo a scrivere la storia e onorare la memoria di tutti quelli che ci avevano preceduto, a cominciare dai pionieri del 1929, e di tutti quelli che non c’erano più, a cominciare da Ivan Francescato, morto nel 1999. Eravamo carichi di commozione e concentrazione. Sul campo non lasciammo nulla. Il giorno dopo, quando mi svegliai, nell’occhio sinistro vidi un buco nero: sul campo avevo quasi lasciato anche la retina. E fu la mia ultima partita in Nazionale. Nel terzo tempo, celebrato in un palazzo rinascimentale affrescato, stravincemmo il confronto. Approfittai di un suo momento di disattenzione per rifilare un calcio nel sedere a Ken Logan, ala e calciatore della Scozia, restituendogli quello che mi aveva dato lui in un’altra occasione. Quella giornata trionfale doveva essere il punto di partenza del rugby italiano, invece divenne il punto di arrivo”.

   

In questi 23 anni la differenza fra Scozia e Italia si è allargata. Giovanelli, che aveva appoggiato la candidatura di Marzio Innocenti alla presidenza federale e che oggi lo sfida con il gruppo “L’Italia del rugby”, spiega: “La Scozia si è programmata e strutturata, dal basso verso l’alto, l’Italia ha puntato dall’alto verso il basso, sperando che i successi della Nazionale alimentassero, da soli, le società di base. Ma i successi sono stati rari e, tramontata la novità, esaurita la moda, il movimento si è impoverito nei campi, nelle squadre, negli allenatori, nei giocatori. L’inversione di tendenza, auspicata, dichiarata, promessa, non c’è ancora stata. E le difficoltà, soprattutto economiche e da Roma in giù, sono evidenti”. Il paradosso è che c’è stato anche un italiano fra chi ha contribuito alla crescita scozzese. “Massimo Cuttitta, pilone sinistro dell’Italia quel 5 febbraio 2000, per sei anni in Scozia ha predicato segreti e regole, arte e mestiere della mischia, in particolare della prima linea, non solo nell’ambito della Nazionale, ma girando per i club. E la mischia chiusa, che era il punto debole della Scozia, è diventato uno dei punti di forza, e su quelle fondamenta è stata edificata la casa. Il sistema ha poi trovato il giusto equilibrio fra tradizione e professionismo, che invece vacilla in Galles e Inghilterra”.

    

E adesso? “Bisogna cancellare subito la delusione di sabato scorso – dice Giovanelli – quando la paura di vincere dell’Italia è stata più forte della paura di perdere del Galles. La verità è che non sappiamo reggere la pressione. E non sempre certe sconfitte si traducono in lezioni. La Scozia è fortissima nel gioco rotto, cioè aggressivo, sporco, da guerriglia. Ci vorrà cuore, ma anche testa. E non disperdere quello che di buono avevamo costruito e mostrato”. Anche pensando alla Coppa del mondo 2023. “Nel girone affronteremo, oltre a All Blacks e Francia, inarrivabili, anche Namibia e Uruguay, accessibili. E lì non dovremo avere paura di vincere”.

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