Foto LaPresse

Sei Nazioni 2023

David Cornwall ci spiega la crisi del rugby in Galles

Marco Pastonesi

Nella quarta giornata del Sei Nazioni l’Italia incontrerà i gallesi. Sarà la sfida tra i tre volte sconfitti, sarà decisiva. “Se prima, a non dover perdere, era solo il Galles, adesso, a non dover perdere, è anche l’Italia. Per tutte e due è l’occasione per evitare il cucchiaio di legno"

Tre partite, tre sconfitte, zero punti, neanche un bonus per l’attacco (numero di mete in una partita) o per la difesa (minori differenze nel punteggio). Chi l’avrebbe mai detto che il Galles si sarebbe trasformato, in due anni, da re del Sei Nazioni (nel 2021, quattro vittorie e una sconfitta di due punti in Francia nel quinto e ultimo incontro) a ultimo in classifica? Il Galles considerato la Nuova Zelanda dell’Emisfero nord. Il Galles dei Gareth Edwards e dei Barry John, ma anche di Richard Burton e di Tom Jones. Il Galles del visionario Carwyn James, che a differenza di tutti gli allenatori che sperano di ridurre al minimo gli errori dei giocatori, si augurava che i giocatori ne commettessero tanti perché solo sbagliando si pensa, si cerca, si sperimenta, si scopre, si inventa. Il Galles dove tutti i gallesi sono nati o sono stati concepiti in un campo da rugby.

   

David Cornwall è il gallese italiano, o l’italiano gallese. Gallese di nascita, italiano di adozione. Mediano di apertura, quando il Galles era cantato come “la fabbrica dei numeri 10”. Era il 1969 quando, grazie anche a una meta di Cornwall, il Newport (la sua squadra di club) riuscì nell’impresa di sconfiggere gli Springboks (la nazionale sudafricana) 11-6. Giunto in Italia, contribuì allo scudetto del Brescia nel 1975. E nel Bresciano è rimasto a vivere la sua vita ovale. “Cominciò così. Avevo 10 anni quando a scuola si presentò un tizio. Chi vuole giocare a rugby?, domandò. Nessuno alzò la mano. Chi vuole giocare a rugby per un mese non dovrà fare i compiti a casa, e stavolta non era una domanda. Tutti, maschi e femmini, alzarono la mano. Da quel giorno ci ritrovammo sul campo ogni martedì pomeriggio per gli allenamenti e il sabato per le partite contro le altre scuole. Non avrei più smesso. E neanche gli altri, maschi e femmine, sul campo o in qualsiasi altro modo avrebbero continuato a sostenere il rugby”.

  

Altri tempi, si direbbe. “Un altro secolo, anzi, millennio – dice Cornwall - A scuola le cose funzionano ancora così. Forse con meno improvvisazione e più programmazione. Ma la realtà è che si fanno meno figli e c’è più concorrenza di altri sport, a cominciare dal calcio, e il rugby ne ha sofferto. Meno vocazioni, meno giocatori, meno insegnanti, meno fuoriclasse. Il sistema si regge ancora sulle scuole e sui club, ma la base, già ridotta – il Galles è più piccolo della Lombardia e ha 3 milioni di abitanti - è più scarsa nella quantità e nella qualità. Quello che noi chiamiamo ‘il rugby della valle’, la Valle Rhondha, la zona delle miniere, si è impoverito. Una volta ogni villaggio aveva un campo con i pali a forma di H, il suo club, la sua squadra, la sua storia, il suo campione. Adesso, proprio per la mancanza di giocatori, sono state autorizzate le squadre giovanili a disputare le partite anche 14 contro 14, o 13 contro 13. A livello superiore esistono ancora le quattro franchigie di Cardiff, Llanelli, Newport e Swansea. E più in alto c’è la nazionale”. Però una nazionale caduta in basso, pur rimanendo fra le prime 10 al mondo. “E’ colpa della crisi economica. La maggior parte dei giocatori delle quattro franchigie, nazionali compresi, non ha ancora potuto rinnovare i contratti con la Federazione. E questo succede durante il Sei Nazioni e a cinque mesi dalla Coppa del mondo. La precarietà minaccia non solo la tranquillità economica dei giocatori, ma anche quella fisica. C’è chi non può pagare il mutuo della casa, chi non può accendere un mutuo, chi è sotto antidepressivi, chi si chiede che cosa potrà fare in caso di infortuni, chi si domanda come potrà dare da mangiare ai propri figli. La tensione è così forte che, prima della partita contro l’Inghilterra – l’Inghilterra, la storica nemica di sempre -, si era addirittura ipotizzata la possibilità di uno sciopero, poi rientrato più per la disponibilità dei giocatori che non della Federazione”.

   

Non è tutto. “Ci sono almeno altre due questioni aperte – spiega Cornwall - La prima riguarda i budget delle quattro franchigie: comunque saranno ridotti, pare, del 30 per cento, e meno soldi significa meno giocatori di qualità, probabilmente meno risultati, meno incassi, un circolo vizioso. La seconda riguarda la regola, solo gallese, dei 60 ‘caps’, cioè presenze ufficiali con la nazionale gallese. Tutti i giocatori che si trovano sotto questa cifra, se andassero a giocare all’estero, dove potrebbero avere contratti certi e stipendi più alti, perderebbero la possibilità di giocare per il Galles, con una perdita nel prestigio, nell’orgoglio, e non solo nei guadagni”.

  

La partita contro l’Italia (sabato alle 15.15 all’Olimpico, diretta televisiva su SkySport1 e TV8) sarà decisiva. “Se prima, a non dover perdere, era solo il Galles – sostiene Cornwall -, adesso, a non dover perdere, è anche l’Italia. Per tutte e due è l’occasione per vincerne una ed evitare il cucchiaio di legno. Già un anno fa l’Italia riuscì a battere il Galles, perdipiù a Cardiff, perdipiù di un solo punto, perdipiù all’ultimo istante, interrompendo una striscia di 36 sconfitte consecutive nel torneo. Stavolta l’Italia si presenta più forte. Perché ha dimostrato di essere una squadra. Ed è più giovane, più fresca, più fiduciosa di quella gallese”.

Di più su questi argomenti: