Foto LaPresse

Il Foglio sportivo

Il fighting spirit dell'Irlanda del rugby

Marco Pastonesi

Marco Bortolami ci spiega il sistema irlandese: “Radici, identità, appartenenza, quasi una religione”. I perché dell'ascesa della Nazionale avversaria dell'Italia al Sei Nazioni 2023

La scorsa estate ha sconfitto gli All Blacks, in Nuova Zelanda, per la prima volta in una serie di tre partite. Lo scorso novembre ha chiuso imbattuta i test-match superando Australia, Fiji e Sudafrica. Nei primi due incontri del Sei Nazioni 2023 ha sbancato il Principality di Cardiff dominando il Galles 34-10 (ma già 27-3 all’intervallo) e infiammato l’Aviva Stadium di Dublino imponendosi sulla Francia 32-19. Tant’è che nella graduatoria del rugby mondiale è al numero 1 (su Francia e All Blacks). E oggi (alle 15.15, Olimpico di Roma, su SkySport 1 e TV8) giocherà contro l’Italia.

   

L’Irlanda sta al rugby come le Fiandre al ciclismo e l’Ungheria alla pallanuoto, come gli afroamericani al basket e i kenyani alla maratona. Un istinto, una scuola, una tradizione, una vocazione. L’Irlanda che, nella nazionale di rugby, unisce la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord nella stessa maglia, verde, e lo stesso stemma, il trifoglio. L’Irlanda che, da sempre, si riconosce nel fighting spirit, quello della lotta e del combattimento, ma che, adesso, ha molto di più. L’Irlanda del mitico Willie John McBride, seconda linea, che inventò uno schema semplice ed efficace: bastava dire 99 perché i giocatori si disinteressassero del pallone e si dedicassero soltanto ai diretti avversari, non esattamente con tè e biscottini. L’Irlanda del divino Brian O’Driscoll, centro, nominato l’irlandese più sexy (ma fra le cinque giurate c’era la modella Glenda Gilson, a quel tempo sua fidanzata), cui gli irlandesi si riferiscono quando dicono che loro credono in God, Dio, ma anche in Bod (B per Brian, O per O’, D per Driscoll), un altro dio, il dio del rugby. Oggi l’Irlanda del glaciale Johnny Sexton, mediano di apertura e calciatore, che tra una partita e l’altra – come dice, scherzando, il rugbyologo Vittorio Munari – “viene messo in frigorifero per essere protetto anche dal passare del tempo”.

  

Come l’Irlanda sia riuscita a issarsi in cima al mondo, per Marco Bortolami, capo-allenatore al Benetton Treviso, non è un mistero: “Innanzitutto la politica: puntare sui propri giocatori, distribuiti nelle quattro province – Leinster, Munster, Ulster e Connacht –, selezionando pochi, ma fortissimi, atleti da altre federazioni, come l’ala neozelandese (e Maori) James Lowe e il mediano di mischia neozelandese Jamison Gibson-Park, dopo tre anni di residenza. Le esperienze di irlandesi all’estero, come lo stesso Sexton al Racing di Parigi, non hanno mai funzionato. Così i migliori irlandesi firmano contratti centralizzati, cioè direttamente con la propria federazione, vengono soddisfatti economicamente, trattenuti in patria e centellinati negli impegni più importanti. E se in Inghilterra il sistema è incrinato, con i fallimenti di due club come Wasps e Worcester, e se in Galles è pericolante, con l’agitazione (fin quasi lo sciopero) dei nazionali anche in questo Sei Nazioni e di più alla Coppa del mondo di settembre, in Irlanda sembra reggere perfettamente”.

  

Poi c’è l’attività di formazione, quella che Bortolami vorrebbe poter “rubare”: “Un sistema di alte prestazioni allargato, ma che si fonda su una diffusione enorme per il numero di praticanti. La base è costituita da circa 200mila giocatori fra gli uomini e 5mila fra le donne, 1900 squadre seniores fra gli uomini e 300 fra le donne, percentuali superiori alle altre britanniche, quasi il 4 per cento, il doppio di Galles e Scozia, ancora di più rispetto all’Inghilterra. La zona eletta rimane quella di Dublino, una ventina fra scuole e college, da Black Rock a Saint Andrews, dove si allenano e si misurano le qualità fisiche, tecniche e umane, e la capacità di ricevere informazioni. Dunque, non solo fondamentali ma anche principi, non solo istinto ma anche feeling”.

   

Il terzo caposaldo è nello stile di gioco: “La ricerca continua, ossessiva, instancabile della linea di vantaggio, un po’ come si fa nella Rugby League, il rugby a XIII – spiega Bortolami –. È diventato il loro marchio di fabbrica. L’esempio viene da Leinster, al vertice nello United Rugby Championship (la cosiddetta Celtic League), Munster ci sta arrivando, Ulster è a metà strada, Connacht ha un gioco più espansivo ma non è poi così lontana”. Il quarto sta nella cultura del gioco: “Radici, identità, appartenenza, aggregazione, oserei parlare perfino di religione. È sufficiente entrare nella club house di una squadra per respirarne la storia, riconoscerne lo spirito, abitarne i colori”.

   

Sembra impossibile battere l’Irlanda: “È riuscita a ringiovanirsi senza traumi, perché i giocatori più giovani arrivano al massimo livello già pronti. Così il XV titolare può contare su una rosa ampia, con più alternative per ogni ruolo. E anche per quello più delicato, il mediano di apertura, alla Coppa del mondo Sexton avrà finalmente la sua brava controfigura”.