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Juve e City, le regine del calcio globalizzato sono nude

Jack O'Malley

Tra le idee della nuova Superlega e quelle del vecchio De Laurentiis difficile scegliere le più folli

Fatemi fuggire adesso, meglio se sbronzo, prima che la Superlega diventi realtà. Ho letto i dieci punti del manifesto della società di consulenza A22 per una Super League con sessanta-ottanta club, e mi sono trovato d’accordo con Kevin Miles, gran capo della Football Supporters’ Association, che li ha definiti “gli spasmi di un cadavere”. Dire che il calcio è in crisi è banale come dire che la birra è gasata, ma vero come dire che io amo la bionda. Da qui a trasformarlo in un confuso baraccone per salvare il culo alle grandi in crisi economica ce ne passa.

 

La Juventus in Italia e il Manchester City qui da noi stanno mostrando al mondo che il re del calcio globalizzato è nudo. Soprattutto la vicenda del club inglese di proprietà degli sceicchi ha aperto gli occhi a tutte le Pollyanna europee pronte a chiudere un occhio su frodi e falsi in bilancio perché l’interesse dei tifosi viene prima di tutto. La Premier League ha chiesto la retrocessione della squadra allenata da Pep Guardiola, se succede davvero vado a ballare nudo a Trafalgar Square, e sono certo che nessuno cercherà di sostenere che però i Citizens sul campo avevano meritato. Intanto però cerco di resistere alle ricette di chi pensa di sapere come salvare il calcio cambiandolo. E più ascolto e leggo cose più temo che finirà tutto come quella pagliacciata somma della Nba, dove l’altro giorno è stato interrotto il gioco di una partita per celebrare il record di punti fatti in carriera da LeBron James: fotografi e cameraman in campo, amici e parenti che lo abbracciano, il cadavere di Kareem Abdul-Jabbar che applaude, il tutto mentre si sarebbe dovuto giocare un match vero, non un’amichevole. Nel campionato di basket americano viene prima lo show e poi lo sport, il giorno in cui lo stesso succederà nel calcio mi darò alla lotta armata, sappiatelo.

 

Nel frattempo qualcuno tolga il fiasco ad Aurelio De Laurentiis: il presidente del Napoli, in eccitazione perenne per lo scudetto a portata di mano, ha detto qualche giorno fa che il calcio è vecchio, avendo l’età media di un ospite del Festival di Sanremo, e che andrebbe migliorato cambiando alcune regole. Come? Abolendo l’intervallo e facendo due minuti di pausa ogni 10 per consentire agli allenatori di intervenire; aumentando le sostituzioni; dando 10 minuti di esclusione dal gioco per ogni cartellino giallo e 30 in caso di cartellino rosso; montando piccole telecamere sulla testa, sulle scarpe o sulle ginocchia dei calciatori. La scusa è sempre la solita: i giovani si annoiano, guardano solo gli highlights, giocano ai videogiochi. Idee come questa sono il risultato di uno sport in cui si è persa totalmente l’idea positiva di appartenenza: a un club, a una tradizione, a dei colori. Ecco perché trova inconcepibile l’addio di uno Zaniolo o di uno Skriniar, per stare alle fughe recenti da quel cesso di campionato che è la Serie A. Chi appartiene – non solo tifa – sa che per amore ci si annoia, ci si scazza, si scalcia il seggiolino e si corre via dallo stadio per strada prima del tempo, si ritorna, si viaggia per ore. A questo pensino i gran visir del calcio, non a trasformare lo sport più bello del mondo in una PlayStation di muscoli e sudore.

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