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Il continuo ritorno del gol Angel di María nelle finali dell'Argentina

Enrico Veronese

Nella finale contro la Francia el Fideo ha dato ciò che a volte era mancato alla Selección a lungo nel Mondiale:  la necessità per gli avversari di non concentrarsi solo su Messi. Il suo gol è ormai un marchio sulle ultime vittorie argentina

Il tempo cambia molte cose nella vita, il senso le amicizie le opinioni, non l’immanenza di Ángel di María in una finale con l’Argentina. Lionel Scaloni, il gentile e misurato selezionatore, ha cominciato a vincere l’epilogo di Doha quando ha maturato il pensiero di far giocare dall’inizio il 34enne Fideo, che aveva disputato dall’inizio solo le tre partite del girone eliminatorio: le Olimpiadi 2008 e la Copa América 2021, la simbolica “finalissima” contro l’Italia come, appunto, l’ultimo atto di Qatar 2022, recano la firma esplicita del fuoriclasse di Rosario. Non l’altro.

 

Addirittura, in tre occasioni, la fattura delle reti dimariane è assai simile se non quasi identica: lancio da lontano oppure filtrante, il numero 11 trova spazio, si presenta da solo davanti al portiere e lo scavalca con un morbido sinistro. Accadde a Pechino, quando un certo Lionel Messi spalancò il campo al quasi coetaneo. Nel massimo torneo continentale per squadre nazionali, un anno e mezzo fa, era stato Rodrigo de Paul a tracciare di María con il radar: errore del brasiliano Renan Lodi e puntuale pallonetto biancoceleste a beffare l’uscita di Alisson Becker.

 

Non conta (anche se vorrebbero far credere il contrario) la “supercoppa” contro l’Italia vincitrice di Euro 2020: il 1° giugno a Londra si è giocato per dare agli azzurri l’illusione di essere ammessi al banchetto, mascherando l’eliminazione mundial. Ma non vi fu storia, e Lautaro Martínez seppe trovare el Fideo tra due difensori: tocco sotto e via, come se non sapesse segnare in altra maniera. Infine Hugo Lloris impotente davanti ai tagli di campo di Messi stesso, Julián Álvarez e Alexis Mac Allister, facile assist per la Sentenza. Per una volta, con il capitano francese uscito forse in ritardo, la soluzione non ha previsto il lob quanto un diagonale di prima, preciso e inesorabile.

  

È quindi il momento di celebrare un campione straordinario, mediaticamente stretto tra Messi e Kylian Mbappé, ma che ha altrettanto determinato questa apoteosi di calcio, playstation, illusione, colori, suoni, urgenza di cui non ci stancheremo di riguardare gli highlight. L’ala della Juventus (quanti bianconeri, presenti e passati, hanno detto la loro: da Adrien Rabiot a Kingsley Coman, da Leandro Paredes a Didier Deschamps), schierata a sinistra tra l’inadeguatezza difensiva di una punta come Ousmane Dembélé e la disabitudine di Jules Koundé a bazzicare la fascia, è stata il primo game changer con rigore procurato e raddoppio.

 

Fino ai tardivi cambi francesi – proprio l’attaccante del Bayern Monaco ha impresso una seconda svolta al match – el Fideo aveva dato ciò che a volte era mancato alla Selección fin qui, ovvero la necessità per gli avversari di non concentrarsi solo su Messi. La Francia, lentissima, era stordita: ma l’Argentina non è nata per addormentare le partite. Appariva chiaro che, qualora i galletti fossero pervenuti al 2-1, sarebbe cambiato tutto. Il mattatore già non era più della partita, richiamato in panchina per la sua limitata autonomia fisica e la necessità di rafforzare gli argini.

 

L’importanza di avere un uomo da finale, anche nel pieno della Messicrazia adanistica, ha nobilitato ciò che le chat rimbalzano come la finale più bella di sempre, tra le partite più belle, paragone chissà per quanto tempo. Cosa abbiamo visto, in miliardi! Ricorderemo con chi eravamo, il posto nel divano, cabala da italiani superstiziosi (o spot della birra Quilmes), tifando per il godimento puro: ma è Rosario, capoluogo della provincia di Santa Fe, il place to be dove voler essere oggi.

 

Nella Bajada è nato Lionel Messi, doppie origini marchigiane, un anno dopo Mexico ‘86; dal quartiere di Pedriel risponde di María, otto mesi dopo. Uno leproso, tifoso del Newell’s Old Boys; l’altro canalla, appassionato del Rosario Central, nel quale ha già dichiarato di voler concludere la carriera. La città del visionario Marcelo Bielsa e del Trinche Carlovich, dove le persone parlano il particolare dialetto gasó, cifrato dall’inserimento di sillabe ulteriori: l’anagrafe dei due barrilete cosmici dice che questa Coppa è rosarina e appartiene a quel derby più che altrove.

 

Di tutto è rimasto un poco, scriverebbe Carlos Drummond de Andrade. Della finale in Russia, della galoppata marocchina, dei rigori in maglia a scacchi. Dei gol di Gonçalo Ramos, del football coming home è rimasto un poco (tornerà buono per l’ennesimo remake): un Mondiale-scorpacciata, dal quale non vogliamo essere svegliati. Perché adesso si ricomincia con Qatar-Ecuador, vero?