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Qatar 2022

Olanda-Argentina tra Julio Cortázar e Spinoza

Gino Cervi

Di geometrie, tele di ragno ed naturali, o divine, eccezioni. Dialogo immaginario tra lo scrittore argentino e il filosofo olandese prima del secondo quarto di finale dei Mondiali

"Ben trovato, venerabile Bento!" disse dall’alto dei suoi quasi due metri un certo Julio.

"Ma che bella sorpresa, Julio carissimo! Tutto mi sarei aspettato tranne che di incontrarti qui stasera, in questo luogo che al tempo delle nostre trascorse vicende terrene non poteva non dico esistere ma neppure essere pensato…", rispose Bento, tra le lente volute di fumo della sua pipa.

"Ma tutto è già stato pensato prima di noi, non credi, Bento? – si abbassò abbracciandolo Julio, col suo spiccato accento di francese d’Argentina – Anche questo stadio… Altrimenti perché mai lo avrebbero chiamato 'iconico'. Lo si legge dappertutto: Lusail Iconic Stadium. Iconico. Nient’altro che un segno, un segno che rimanda a un altro segno. Già, ma quale segno, secondo te? C’è chi dice una grande cesta, chi una la sella di una cavalcatura beduina, o la vela di un’imbarcazione araba … Vuoi sapere come la penso? A me pare una gigantesca forma di Parmigiano-Reggiano. Del resto, come in ogni party che si rispetti, anche alla fine di questa festa mondiale della gigantesca forma non resterà altro che la crosta, il guscio vuoto…".

"Tu mi parli di forma, caro Julio – rispose bonario e sorridente Bento, l’olandese che di olandese aveva ben poco in apparenza – Ma come ben sai io mi sono sempre curato di più della sostanza, di quel che è in sé, che per essere conosciuto non ha bisogno di altro mezzo, più che degli attributi che ne definiscono la forma: quindi che questo luogo in cui ci troviamo stasera sia vela o formaggio, sia sella o gran catino istoriato di segni geometrici poco davvero m’importa…".

"Questo almeno dovrebbe farti sentire un poco a casa, se non ricordo male quello che imparai dalla tua filosofia, mio vecchio Bento!", disse Julio allargando un braccio sulla spalla del suo piccolo amico.

"Sì, sì, mi rassicura alquanto essere circondato da questi intrecci geometrici che definiscono una bellezza non soltanto estetica. Io ci ho sempre visto dell’etica in quest’ordine mentale e universale – rispose Bento. – Ed è anche il motivo per cui sono qui stasera. Tu che di giochi te ne intendi, puoi benissimo capire come anche questo gioco a cui assistiamo stasera, nella sua più alta espressione, in fondo non sia altro che un tessuto di linee euclidee. Rette, curve, secanti, tangenti disegnate seguendo il filo teso del pensiero e della palla…".

"Ho sempre pensato che la chiave geometrica del tuo sistema filosofico trovasse nel football la sua più congeniale manifestazione".

"Be’, Julio, adesso non esagerare. Non sono mai stato così convinto che nel football tutto si possa ridurre a una successione perfetta e immutabile di triangolazioni. E ne sono ancora meno convinto da quando ho visto giocare quel tuo, per me inconcepibile, connazionale basso, grassottello e asimmetrico che incarnava l’eccezione alle regole di naturali e divine che, come sai, per me sono la stessa cosa: Natura sive Deus. La penetrabilità dei corpi, la balistica delle sfere, il basso che diventava alto, l’infimo sublime… Mai creduto nei miracoli, fino a quando non ho visto giocare quel Diego. Imperfetto e divino. E da lì in poi ho pensato che l’architettura dell’intero mio pensiero potesse vacillare…".

"Hai ragione, hai ragione, ma sai che ti dico, Bento? Ho sempre pensato che la rivoluzione collettiva nella storia del pallone potesse nascere solo in quel crogiolo di merci e pensieri, lingue e contrattazioni che è stata la tua Amsterdam. Johan, il figlio del fruttivendolo, e il suo kibbutz color arancione occupavano il campo da gioco con l’ipnotica trama di una tela di ragno in cui le squadre avversarie cadevano come mosche. E che importa se, alla fine, erano proprio le mosche a vincere. A quelli come noi, a cui piacciono le partite infinite e i romanzi che ricominciano dove vogliamo, ci bastava guardare la tela. Ipnotizzati… Del resto, non l’hai forse detto tu che “la beatitudine non è premio alla virtù, ma è la virtù stessa?”. Dimmi però, vecchio Bento: chi vincerà stasera?".

"Vincerà la pulce che anche stavolta spezzerà la tela del ragno".

"Non so se il tuo pronostico sarà felice. Ma so che l’averti incontrato qui, senza darsi appuntamento, non è stato un caso: dal momento che la gente che si dà appuntamenti precisi è la medesima che ha bisogno di un foglio a righe per scriversi o che preme dal basso il tubetto del dentifricio".

"Buona partita, Julio!".

"Buona partita, Bento!".

    


 

Dialogo immaginario tra Bento de Espinosa, meglio noto come Baruch, o Benedetto, Spinoza, filosofo olandese del XVII secolo, nato ad Amsterdam nel 1632 da genitori portoghesi ebrei sefarditi, e morto a l’Aia, nel 1677, e Julio Cortázar, scrittore argentino, nato a Ixelles, vicino a Bruxelles, nel 1914, e morto a Parigi nel 1984, prima del quarto di finale tra Olanda e Argentina al Lusail Iconic Stadium. Le battute del dialogo sono (quasi) tutte liberamente prese dall’Etica dimostrata con ordine geometrico (1677, postuma) di Spinoza e da Rayuela, romanzo di Cortázar (1963).