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il lutto

Davide Rebellin è morto e con lui il nostro tempo bambino

Giovanni Battistuzzi

Il ciclista veneto è stato ucciso da un camionista su una strada a Montebello Vicentino. Aveva dato l'addio al ciclismo lo scorso 16 ottobre, a cinquantun anni. La bicicletta non l'avrebbe invece mai voluta abbandonare

Smetto. Però non so se smetto, se smetto davvero. Di gareggiare sì, ma con la bicicletta non si smette mai, io almeno, credo di non smettere mai. Diceva così nemmeno un mese fa Davide Rebellin. Lo diceva mentre sorrideva, ma con gli occhi velati di una malinconia sottile, leggera, come quel suo fisico sottile e leggero che aveva portato in sella a una bicicletta per oltre quarant'anni, trenta di questi a correre per davvero, a fare il professionista.

 

Aveva smesso, però sai che... che a volte ci penso e mi dico che non lo so davvero. Perché i suoi cinquantun anni non erano poi troppi per correre, per stare dietro e spesso davanti ad avversari che potevano essere suoi figli. Il 16 ottobre aveva chiuso al trentesimo posto la Veneto Classic. Erano partiti in centododici, l'avevano finita in settantaquattro.

 

Smetto, ma con la bici non smetto davvero. Ha smesso oggi, un mercoledì 30 novembre che non scorderemo. Ha smesso oggi, ammazzato da un camionista, che chissà forse non l'ha nemmeno visto, perché chi guida non vede mai i ciclisti, che sono gli invisibili, i paria della strada.

 

Davide Rebellin è morto, ucciso da un uomo su un mezzo molto meno sottile e molto più pesante di lui, della sua bicicletta, del suo amore infinito per quel mezzo e per quello sport. E in quello stesso istante sono morte almeno due generazioni di ciclisti, molto meno veloci e senz'altro meno sottili e leggere di lui, che a lui forse non pensavano sempre, ma che nel vederlo correre, ancora affannarsi in gruppo, scorgevano quell'incredibile magia che solo lo sport, e soprattutto il ciclismo, sa dare, quella di dilatare il tempo molto più del consueto, prolungare una passione bambina che doveva essere già sopita. Perché nel sapere che Davide Rebellin correva, continuava a correre, era come se il tempo non scorresse davvero, come se una parte di noi, del noi che è stato, non si fosse persa, non fosse evaporata, in chilometri e chilometri pedalati, in ore "perse" in altri impegni, il lavoro e tutte quelle altre occupazioni di tutti i giorni, che ci tengono nostro malgrado lontani dalla bicicletta. Saperlo in gruppo, con il numero sulla schiena era qualcosa di rassicurante. Vederlo pedalare era come sempre un piacere, perché sui pedali continuava a saperci fare.

    

Davide Rebellin è stato ucciso mentre faceva quello che aveva sempre fatto, quello che avrebbe voluto continuare a fare all'infinito. Tra i vecchi appassionati di ciclismo, gente che in osteria ci va ancora pedalando perché certi vizi, la bici e il vino, è una blasfemia abbandonarli, viene spesso detto che la morte è meglio affrontarla in sella, una stretta al cuore e via. Può essere vero, a volte ci si pensa, si immagina che sia davvero così, che sarebbe meglio in questo modo che in altri , a patto che l'età sia quella giusta, se esiste poi un'età giusta. Sicuramente non è giusto, non è possibile, nemmeno concepibile, salutare tutti a cinquantun anni a poco più di un mese dall'addio alle corse. E per di più su di una strada regionale.

   

Va a finire spesso così. Le bici bianche a bordo strada sono tante, una di più da oggi. Stanno lì a dire quello che nessuno vuole vedere, vite andate mentre si muovevano sottili e leggere in un inferno di scatole metalliche che scorrono troppo veloci e troppo distratte al loro fianco, lamentose perché c'è uno sporco ciclista che le rallenta. Uno magari come Davide Rebellin che portava con sé i nostri sogni bambini.

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