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A san siro

Pioli si prende la sua rivincita. Milan-Juve è il manifesto della confusione di Allegri

Giuseppe Pastore

Per la prima volta, dopo 19 confronti, l'allenatore rossonero batte il collega bianconero, che a fine partita è apparso affranto e sconsolato come i suoi calciatori. Decinono Tomori e Diaz. La squadra di Torino si fa preferire all'inizio, poi è arrivato il collasso e un avversarario nettamente superiore

Milan-Juventus ha avuto una storia solo finché s'è spezzato l'equilibrio, via via sempre più precario, nel modo più inusuale per i campioni d'Italia che non segnavano su corner da quasi un anno (Romagnoli in Milan-Sassuolo del 28 novembre 2021). In questo senso ha ricordato al contrario una lunga serie di Milan-Juventus tutti uguali risalenti al decennio precedente, sia a San Siro che a Torino, con il Milan che partiva forte e in alcuni casi andava anche in vantaggio, prima di consegnarsi col passare dei minuti alla tracimante e inevitabile marea bianconera. Ne ricordiamo almeno tre o quattro in fotocopia, spesso anche con lo stesso punteggio di ieri: un Milan-Juve 0-2 del 2014 (Llorente-Tevez), un Milan-Juve 0-2 del 2017 (Higuain-Higuain), un Milan-Juve 1-2 del 2016 (Mandzukic-Pogba), uno Juve-Milan 3-2 del 2013, eccetera.

Quella Juve schiacciasassi si era accanita in particolare su Stefano Pioli, prototipo dell'allenatore di metà classifica che contro Allegri aveva collezionato una lunga serie di amarezze, tanto da non batterlo mai per diciannove volte su diciannove. Veniva in mente la famosa frase di Vitas Gerulaitis pronunciata al ritiro di Bjorn Borg, che l'aveva sconfitto 16 volte su 16: “Deve ancora nascere chi batte Gerulaitis 17 volte di fila!”. Ma il 2-0 di ieri è tutt'altro che il punto della consolazione, anzi sottolinea in modo eclatante uno scavalcamento di campo, un cambio di gerarchie, il sorpasso di un allenatore (e di un calcio) concentrato sul futuro su un tecnico ostinatamente rivolto al passato: gli indisponibili, i ritorni impossibili, le Juve di una volta che non torneranno più. Presto o tardi la realtà presenta sempre il conto, e in questo senso Milan-Juventus è sembrata una partita di calcio tra una squadra di oggi e una squadra di ieri: di quanto sia arretrata questa Juventus, anzitutto culturalmente, l'abbiamo scritto tante volte, ma ripassate del genere fungono da punto esclamativo.

E allora ripassiamola questa partita, che il Milan inizia a vincere quando Pioli lancia dal primo minuto Pobega in una posizione ibrida tra centrocampo e trequarti, secondo un copione sperimentato più volte in passato: l'anno scorso la supremazia tattica nello scontro diretto di Napoli era ruotata attorno alla posizione da finto trequartista di Kessié, ruolo poi ereditato dal duttile Krunic nelle ultime giornate in cui Maignan quasi non subiva tiri in porta. Una volta, nel 2020 contro l'Atalanta, Pioli in quel ruolo ci aveva messo addirittura Meité (era finita 0-3). Il senso era chiaro: per forza fisica, intensità e propensione al sacrificio, c'era bisogno di qualcuno che spaccasse più legna di De Ketelaere, prezioso ma ancora troppo esile per queste temperature.

 

Pobega ha assolto benissimo a questa funzione, così come Krunic che l'ha sostituito al 58', liberando da qualunque compito difensivo un Brahim Diaz ringalluzzito dalla maglia da titolare e facendo bene allo stesso De Ketelaere, molto più vivace nella mezz'ora finale rispetto alle ultime apparizioni. A quel punto però la Juventus era già “andata insieme”, per usare un'espressione casearia riferita al latte coagulato andato a male, cara a Gianni Brera e Beppe Viola di cui tra qualche giorno ricorrono i 40 anni della prematura scomparsa. Allegri aveva inteso riproporre il tentativo di gabbia su Theo e Leao riuscito a gennaio, con Danilo, Cuadrado e Locatelli tutti sulla destra, e l'inadeguato Kostic a vago supporto della coppia Vlahovic-Milik, con il polacco molto più a suo agio nelle sponde e nel gioco associativo rispetto al serbo, monumento ambulante alla frustrazione fatta centravanti fino a diventare assist-man al contrario per Brahim Diaz.

 

Finché ha avuto gambe e fiato la Juve si è fatta preferire, partendo forte come aveva fatto contro il Benfica: con le stesse tempistiche, puntuale, è arrivato il collasso. Cuadrado calcia a lato ignorando due compagni liberi all'altezza del dischetto. Milik tira in bocca a Tatarusanu, Danilo ci prova da 25 metri. Privo di tutta la fascia destra titolare e costretto a cercare ossigeno proprio da quel lato a causa della densità sulla sinistra, il Milan ci mette una buona mezz'ora a raccapezzarsi, ma poi deve stupirsi pure lui della facilità con cui la sua piena non trova argini. Partito benissimo, Rabiot viene pian piano offuscato da Bennacer, mentre Locatelli, come spesso accade, in fase di costruzione lascia pochissime tracce. Entra in partita Leao; Cuadrado inizia ad arrancare, viene ammonito ed è anche sfortunato nel contrasto con Theo Hernandez su cui Orsato ignora un fallo solare anche a velocità normale. Il gol di Tomori soffoca le speranze della Juve di fare risultato, come succedeva dieci anni fa ai Milan regolarmente castigati dai Tevez, Mandzukic e Pogba di turno.

Al di là dell'inferiorità tecnica e atletica, cosa hanno in comune quelle due squadre? L'assenza di temperamento, dote incarnata da uno o più leader che siano immersi a pieno diritto nel calcio contemporaneo, ovvero meno stagionati e più credibili di Bonucci, un capitano che non gode di fiducia incondizionata nemmeno da parte del suo allenatore. A corrente alternata potrebbe esserlo Di Maria, osannato dopo i tre assist al Maccabi, ma è pur sempre lo stesso giocatore che due partite fa si è fatto espellere stupidamente a Monza, cacciando la squadra in uno dei tanti vicoli ciechi della stagione.

A fine partita, una volta tanto, Allegri è sembrato affranto, per niente ciarliero: parlava con un filo di voce, imputava la sconfitta a errori tecnici ripetuti e dunque probabilmente incurabili soprattutto in mezzo al campo, dove il cavallone Rabiot è la vera proiezione agonistica, nel bene e nel male, dell'Allegrismo. “Bisognerà uscirne con le buone o con le cattive”, sillabava spaesato in conferenza stampa, dove un giornalista perfido gli ha rinfacciato la famigerata frase sul Milan senza cinque titolari: battuta manifesto della confusione di Allegri, perché oltre a suonare fastidiosamente auto-assolutoria per una società che non ha avuto problemi ad aprire il portafoglio in estate, diventa addirittura boomerang.

A proposito degli infortuni, c'è un particolare un po' inquietante in uno dei tormentoni juventini del momento, quello che vuole le sorti di questa stagione legate ai rientri – imminenti, quasi imminenti, sempre un po' più in là – di Federico Chiesa e Paul Pogba. Chiesa ha giocato la sua ultima partita il 9 gennaio Pogba, colui che dovrebbe cambiare passo e volto al centrocampo, ha disputato la sua ultima partita intera il 12 marzo e c'è anche il rischio che, per inseguire il Mondiale, forzi i tempi del recupero dall'infortunio al ginocchio. In che modo, in che contesto, in che sistema di gioco due giocatori fermi rispettivamente da oltre nove e sette mesi possano trasformare la Juve con uno schiocco di dita non è affatto chiaro, e nessuno lo chiede ai diretti interessati, forse per non rovinare pietose illusioni. Quando torneranno, dovranno sobbarcarsi il peso supplementare di accendere la luce in una squadra infiacchita, già predisposta a un inverno tecnico, tattico, fisico e – quel che è peggio – sentimentale.

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