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La noiosa perfezione di Haaland che piace ai giovani

Jack O'Malley

L’attaccante norvegese del Manchester City fa notizia quando non segna. In Italia basta un turno di Champions per incrinare le certezze: all’Inter non giocavano contro Inzaghi e De Katelaere non era il nuovo Kakà?

Èvero, non abbiamo probabilmente mai visto nulla di simile a Haaland. L’attaccante norvegese del Manchester City sta abbattendo tutti i record, come piace dire ai titolisti pigri dei troppi siti internet sportivi in cerca di clic, fa notizia quando non segna e le sue imprese sono talmente all’ordine del giorno da meritare al massimo un trafiletto sulla homepage della sezione sportiva del Guardian, che tra un appello a sostenere il “giornalismo climatico” e un interessantissimo approfondimento sulla distanza che c’è tra il calcio femminile americano e quello inglese giovedì sera trovava nonostante tutto lo spazio per segnalare che molti primati della Premier League rischiano di essere aggiornati dall’asessuato robot che gioca in attacco nella squadra di Pep Guardiola. In attesa che anche Haaland scopra la figa, mi limito a sottolineare quanto sia l’emblema perfetto del calcio moderno: numeri, big data, prestazioni misurabili e statistiche ci raccontano la noiosa perfezione di un calciatore che è tutto l’opposto di quello che la narrazione sportiva contemporanea ci ha venduto fino a oggi. Persino la tripletta allo United per vendicare il padre che finì la sua carriera per un fallaccio subito proprio contro i Red Devils da Roy Keane non ha prodotto pagine memorabili da parte delle migliori penne della nostra generazione, sempre pronte a trasformare in epica qualunque cazzata. I sorprendenti e freddi numeri di Haaland valgono più di qualunque sentimento, e non so dirvi quanto questo sia un bene o un male, semplicemente registro come il biondo centravanti norvegese sia il giocatore perfetto per la generazione che non guarda le partite ma cerca gli highlights su YouTube, e come io continui comunque a preferirgli la mia, di bionda, al pub.

 

Devo ancora riprendermi dalla sbronza per la settimana perfetta in Europa delle inglesi: hanno vinto tutte, tranne il Tottenham di Conte, che comunque non ha perso. Vorrei avere le certezze effimere dei giornalisti sportivi italiani, lo confesso, quelli che prima di Inter-Barcellona assicuravano che i nerazzurri giocavano contro l’allenatore e ora esaltano il gruppo che ha mourinhanamente fermato i blaugrana, quelli che fino a ieri Rabiot era una pippa e adesso è un grande giocatore, quelli che De Katelaere è il nuovo Kaká e dopo i tre fish&chips del Chelsea ai rossoneri dicono che il belga non è ancora pronto per i grandi palcoscenici, soprattutto quelli che per due giorni si sono bagnati per l’esordio in Serie A del primo arbitro donna (o la prima arbitra donno?): hanno fatto a gara per spiegare che la promozione era meritata (nemmeno Collina aveva esordito in A dopo appena tre partite dirette in B, mi dice Quarantino Fox), che la direzione di Sassuolo-Salernitana è stata perfetta, e che il rigore regalato agli emiliani “in realtà c’era”. Un servilismo mai visto nei confronti di un direttore (o direttrice?) di gara, che svela perfettamente l’equivoco di fondo che tutti gli elogi hanno tentato di nascondere: Maria Sole Ferreri Caputi non è brava come vi hanno fatto credere, è lì solo perché l’Uefa ha detto all’Italia che se non avesse fatto fare carriera a una donna avrebbe perso un arbitro internazionale. In Inghilterra, dove le stronzate politicamente corrette sull’inclusione e la parità ormai ci hanno mangiato il cervello, almeno siamo realisti: in Premier League non c’è nessun arbitro donna. E va benissimo così.

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