Matteo Politano festeggia il gol dello 0-1, del Napoli a Milano (Ansa)

Serie A

Il calcio ottimista del Milan non basta. Questo Napoli può davvero vincere lo scudetto

Giuseppe Pastore

La squadra di Spalletti passa 2-1 a San Siro e si candida seriamente per la vittoria finale: gli elementi ci sono tutti, ora deve fare il salto di qualità mentale. Per i rossoneri arriva la prima sconfitta in 8 mesi: i ragazzi di Pioli però giocano bene, come al solito, ma l'assenza di Leao si fa sentire 

Sergiño Dest, il primo calciatore americano della storia del Milan in campionato, faticherà a togliersi dalla testa il satanasso Kvaratskhelia: “Georgia on my mind”, avrebbe detto un suo celebre connazionale un po' più virtuoso di questo terzino destro di probabile avvenire, semplicemente ancora non all'altezza di uno scontro-scudetto di serie A. L'origine della sostituzione Calabria-Dest, che ha indirizzato dalla parte del Napoli una partita nel primo tempo quasi dominata dai rossoneri, è dibattuta: nel post-partita Pioli ha parlato di un affaticamento muscolare del proprio capitano, scrollandosi dalle spalle le nubi di chi aveva visto nel doppio cambio all'intervallo una pavida riedizione del pasticciaccio di Simone Inzaghi a Udine, una decina di ore prima.

 

Dunque Pioli non avrebbe cambiato entrambi gli ammoniti Kjaer e Calabria per troppa paura di Kvaratskhelia, ma per un comune problema fisico; sta di fatto che proprio il neo-entrato Dest è responsabile del primo di due episodi che hanno dato al Napoli tre punti pesanti come il plutonio. Sempre dalla fascia destra, arata da un Mario Rui mai così intenso e concentrato a questi livelli, è arrivato poi anche il secondo gol di Simeone, bravo a staccarsi su Tomori e punire un istante di rilassatezza del Milan, giunto appena dopo una pausa (forzata) di due minuti per un infortunio a Giroud che aveva per forza di cose raffreddato la temperatura di una serata che dopo l'1-1 si era fatta torrida. Ce l'aveva in mano Pioli, l'ha vinta Spalletti che in campionato non perde in casa del Milan dal 14 maggio 2006, ultima domenica da dirigente di serie A di Luciano Moggi.

 

Così per la terza volta consecutiva il Napoli passa a San Siro, sempre dopo partite molto equilibrate, combattute e risolte dai classici episodi di italica tradizione. Dopo lo 0-1 Politano (marzo 2021) e lo 0-1 Elmas (dicembre 2021), l'1-2 di ieri obbliga tutti noi a ritenere il Napoli di Spalletti una candidata serissima al terzo scudetto, viste anche le lune dell'Inter e la depressione esistenziale della Juventus. “È questo il problema!”, diranno i napoletani più pessimisti, disillusi o semplicemente scaramantici. Ed è a questo punto – anche approfittando di una pausa Nazionali che potrebbe partorire le creature più svariate nella testa della città, dell'allenatore e dello spogliatoio – che la Società Sportiva Calcio Napoli deve fare quel salto di qualità mentale che le è regolarmente mancato in tutti questi anni di piazzamenti. Deve dirsi chiaro e sincero che può vincere lo scudetto: ma deve dirselo davvero, senza minuetti, senza dichiarazioni di maniera, senza “non succede ma se succede”, senza argillosi patti di spogliatoio destinati a sgretolarsi per i protagonismi delle forti personalità (che sono quasi tutte andate via), senza De Laurentiis che entra in scivolata a rompere le scatole, senza Spalletti che si sbrodola in prolissi sofismi da conferenza stampa per dissimulare la paura di vincere.

 

In questo campionato anomalo, spezzato in due tronconi, senza continuità e senza dittature tecniche, il Napoli ha persino più chance della scorsa stagione in cui era partito con otto vittorie di fila. Ha sopperito all'infortunio di Osimhen cavando gol pesantissimi da Raspadori (Spezia e Rangers) e dal Cholito Simeone, che ha il perfetto phisique du rôle per la punta di scorta che ogni squadra deve possedere per durare sul lungo periodo, e che nella storia della serie A vanta luminosi esempi da Jon Dahl Tomasson a Julio Cruz, da Vincenzo Montella a Marco Branca. A centrocampo ha fisicità come nessuna e l'uscita di scena dell'umorale Fabian Ruiz, vero uomo in meno dello scorso girone di ritorno, gli ha dato paradossale sintonia: un cero a San Gennaro affinché Zielinski, la discontinuità fatta persona, si mantenga su questi livelli per una stagione intera. Ha Kvaratskhelia le cui giocate procedono a velocità doppia rispetto al tran-tran di piccolo cabotaggio della serie A, dove persino un Vlasic (Juric dixit) fa la differenza. Ha un capitano ideale, un soldato ingiustamente sottovalutato come Di Lorenzo, estremamente più serio, centrato e professionale di tanti più celebrati colleghi. Deve proclamare a sé stesso che può farcela, senz'ansia, che tanto a Natale le prime cinque saranno tutte raccolte in un fazzoletto di punti e fino a giugno è ancora lunghissima. E in primavera vedremo: l'anno scorso Spalletti, lui più di altri, cascò con tutte le scarpe nella trappola dell'emotività e delle aspettative, a cominciare proprio dal Napoli-Milan di ritorno. A questo proposito, già l'insidiosa Napoli-Torino che lo aspetta al ritorno sarà un test non di poco conto.

 

Il Milan continua a giocare un calcio molto piacevole e ottimista, ma ricade in qualche svagatezza di troppo in difesa e soprattutto sui palloni alti, dove ha preso di nuovo gol a difesa schierata come otto giorni fa a Genova da Djuricic. Tutto sommato sono sviste perdonabili, dal momento che siamo ancora in estate. De Ketelaere continua a centellinare intuizioni – alcune molto pregevoli, come quella che avvia l'azione del pareggio – con flemma e precisione da monaco trappista fiammingo, ma in nove partite non lo abbiamo ancora mai visto tirare in porta con convinzione: siccome non è costato poco e l'anno scorso ha segnato 18 gol in 49 partite (ok, in Belgio), la sua calligrafia inizia a non essere più sufficiente.

 

Quando manca Leao, proprio come l'anno scorso, la produzione offensiva si poggia soltanto sulle possenti spalle del quasi 36enne Giroud: trovare il modo di trasformare in gol tutta la mole di gioco ammassata all'altezza delle trequarti senza dover per forza scaricare la palla a sinistra al portoghese è l'ultimo gradino che manca al Milan per poter essere credibile anche a livello europeo e non far scolorire quel triangolino di stoffa sul petto che pure ieri – nonostante la prima sconfitta in otto mesi – ha dimostrato di non essere frutto di usurpazione.  

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