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L'addio di Federer, destinato a rimanere termine di paragone non solo nel tennis

Umberto Zapelloni

Lo svizzero è divenuto letteratura ancora prima di arrendersi al suo fisico. Come Ali, Lewis, Jordan: si tratta di uno di quei campioni destinati a restare in eterno (anche se c’è qualcuno in giro per i campi che gli preferisce Nadal o Djokovic). King Roger non è nato perfetto, non è nato re: lo è diventato

Un campione è come un diamante. È per sempre. Non esce di scena quando spedisce al mondo una lettera d’addio. Resta nel cuore, nella testa, negli occhi. Quando quel campione poi è andato oltre il suo sport, la separazione diventa impossibile. Roger Federer, un tennista che è diventato letteratura ancora prima di arrendersi al suo fisico, è uno di quei campioni destinati a restare in eterno anche se c’è qualcuno in giro per i campi da tennis che gli preferisce Nadal o Djokovic.

 

 Federer non giocava davvero da più di un anno, da quattordici mesi, ma la sua ombra era sempre lì. Tutti aspettavano una nuova apparizione, anche se forse avrebbe potuto salutare il mondo dopo il suo ventesimo titolo, lasciare nel momento in cui era ancora il più grande di tutti. Adesso, dopo 1251 partite vinte e 275 perse, ha messo una data su quella che davvero sarà la sua ultima volta. Come Serena Williams poche settimane fa. Si chiude un’epoca che resterà per sempre nella storia e non soltanto dello sport. Noi resteremo più soli davanti alla tv. Ma più ricchi dentro. Perché inevitabilmente scatterà il paragone impossibile e acrobatico. Inevitabilmente ci prenderà una botta di nostalgia guardando gli eredi contendersi il trono che in realtà era già occupato da altri. 

Federer, come gli hanno riconosciuto tutti gli avversari in queste ore di tristezza per il suo addio, possedeva un arsenale di risorse e di colpi che potevano apparire solo belli, ma in realtà avevano un impatto devastante nella metà campo avversaria sia che fosse di erba, terra o cemento. Federer ha dei numeri pazzeschi, numeri che resteranno lì sui libri, su wikipedia, ma la statistica non avrà mai la forza di raccontare quello che ha rappresentato nella storia dello sport e non soltanto del suo. È un esempio di comportamento, di vita non soltanto di diritti di velluto, rovesci al veleno, battute chirurgiche. La sua eleganza, la sua cura dei dettagli, mai con un polsino, un ricciolo, uno sguardo fuori posto. Certo in giro c’è chi preferisce i bicipiti sotto la canotta di Nadal, la furia anti vaccino di Nole. Ma nessuno è perfetto nello scegliersi i suoi idoli. Oggi la vittoria è l’unica cosa che conta nello sport. Forse lo è sempre stata, non ce ne voglia De Coubertin, ma Federer ci ha insegnato che non basta vincere tutto per andare oltre e fermarsi nel cuore. Bisogna accompagnare i trofei alzati al cielo con un’anima.

Federer è come Ali, come Jordan, come Carl Lewis, come Pelé e Maradona a reti unificate, come Ayrton Senna. Secondo Foster Wallace, Federer è un’esperienza religiosa: “L’umana bellezza di cui parliamo qui, è di un tipo particolare; si potrebbe chiamarla bellezza cinetica. Il suo potere e la sua capacità di attrarre sono universali. Non ha nulla a che fare con il sesso o con le norme culturali. Sembra piuttosto riguardare il riconciliarsi dell’uomo con la sua realtà corporea”. Li chiama Momenti Federer. Sono effetti che producono solo certe gesta sportive. In una danza di Ali, una schiacciata di Jordan, un dribbling di Pelé o Maradona, un sorpasso di Senna c’è della poesia. Nel caso di Federer i sui “gesti bianchi” come li avrebbe chiamati il maestro Gianni Clerici, c’è anche un comportamento extra tennistico di un’eleganza sovrannaturale. Ma una dichiarazione, un gesto, un abito fuori posto.  “Quando si guarda il giovane svizzero giocare – scriveva sempre Wallace - ci sono istanti in cui cade la mascella, gli occhi escono dalle orbite e in cui si emettono suoni che fanno accorrere la moglie dalla stanza accanto per vedere se tutto è ok”. 

Federer non è nato perfetto. Non è nato re. Prima di diventare il dio del tennis ha fatto il suo percorso ben raccontato dal New York Times che è andato alle origini del cambiamento di quel ragazzo svizzero arrivato tra i grandi alla fine degli anni Novanta, dopo aver già lasciato il segno nei tornei giovanili: “Chi lo conosce bene, conosce pure il motivo del suo cambiamento significativo. Federer ha scelto di giocare a tennis iniziando a lavorare con il giocatore australiano Peter Carter, che gli dava lezioni per integrare le sue entrate come aspirante giocatore. Lo ha aiutato a sviluppare il suo gioco elegante, il suo dritto al volo e il suo rovescio a una mano, quando Federer veniva deriso dai suoi coetanei per il suo scarso francese. La sua prima svolta professionale è arrivata a Wimbledon nel 2001, quando ha eliminato Pete Sampras, sette volte campione, al quarto turno.

È stato allora che Federer ha lottato con i suoi nervi, quando ha dovuto affrontare la tragedia della morte di Carter in un incidente automobilistico in Sud Africa nel 2002, durante la luna di miele, un viaggio che aveva fatto su sollecitazione della famiglia Federer. Devastato, Roger ha incanalato il suo dolore nel tentativo di diventare il campione che Carter era convinto sarebbe potuto diventare. Ha fatto sembrare facile il tennis”. Ma nulla è più difficile che giocare a tennis come Roger.

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