Roger Federer (Ansa)

8 Wimbledon possono bastare

Con l'addio di Federer finisce l'età dell'oro per i gesti bianchi

Giorgia Mecca

Con lo svizzero il tennis è diventato esperienza religiosa, “così si gioca in paradiso” commentavano Clerici e Tommasi a proposito dei suoi rovesci lungolinea, i suoi dritti con i piedi sospesi per aria, senza apparente fatica

Il tennis per molti si è fermato in una domenica di luglio del 2019, il giorno della finale di Wimbledon. Poco prima delle sette di sera, Roger Federer, sprecando due match point e consegnando il trofeo nelle mani di Novak Djokovic ha fatto capire al mondo che lo sport non è mai una favola, molto più spesso di quanto si immagini è una tragedia senza morti ammazzati. Quel torneo doveva essere l’ultimo tratto di un cerchio perfetto che si chiude, il campione che dice addio alzando il ventunesimo Slam al cielo, una fine degna di Federer. Ma la fine è sempre spietata, non rende giustizia, ti fa guardare allo specchio non chi sei stato, ma le tue cicatrici. Guardandolo uscire dal campo sconfitto, sono stati in molti a pensare mai più, con più nostalgia per ciò che stavamo per perdere che gratitudine per ciò che avevamo avuto il privilegio di guardare. 

  

Nel tennis esiste un prima e un dopo Roger Federer, abbiamo esultato eccome dopo quel 14 luglio, l’anniversario della presa della Bastiglia e della definitiva rinuncia ai miracoli, abbiamo applaudito Carlos Alcaraz, il nuovo numero uno al mondo, ma il nostro cuore non ha mai smesso di battere rivolgendosi al passato, a quando Federer era re, e noi, di riflesso, un po’ insieme a lui. Con lo svizzero il tennis è diventato esperienza religiosa, “così si gioca in paradiso” commentavano Clerici e Tommasi a proposito dei suoi rovesci lungolinea, i suoi dritti con i piedi sospesi per aria, senza apparente fatica. Eppure Federer, forse, ha dimostrato di essere il più grande quando si è fatto uomo, nei suoi pianti a dirotto dopo le sconfitte, nella sua incapacità di parlare alla fine di un match. “It’s killing me”, mi sta uccidendo. Queste sono le uniche parole che è riuscito a pronunciare al termine di una finale persa in Australia contro Rafa Nadal.

 

Non era perfezione, era la resa di un campione che con le sue lacrime regalava una lezione, forse la più importante: non si può essere un campione sempre. Più di 1.200 partite vinte, 310 settimane da numero uno, 103 tornei Atp conquistati, nessuno tra questi numeri è un record, eppure, quando si parla di lui le classifiche passano in secondo piano, così come la rivalità con i suoi due più grandi avversari, Nadal e Djokovic, che lo vedono perdente in entrambi i casi. 

 

Federer si ritirerà subito dopo la Laver Cup in programma a Londra dal 23 al 25 settembre. Da quel momento in poi, davanti al suo nome e alla sua professione ci sarà un ex, verbi e successi coniugati al passato. Quest’anno a Londra, entrando vestito in borghese sul Campo centrale che lo ha visto esultare sette volte, ci aveva avvisati: “A casa con la mia famiglia sto bene, il tennis non mi è mancato”. Abbiamo preferito concentrarci sulla sua riabilitazione, su quei post laconici che lo vedevano in campo o in palestra ad allenare il ritorno, senza considerare i quarantuno anni, il suo sacrosanto diritto a dirci addio. “E’ stata un’avventura incredibile” ha scritto sui social prima che sui social si smettesse di parlare d’altro. “Il tennis è stato più generoso di quanto immaginassi, ma ora è il momento di dire basta”. 

 

Era da due anni che stava provando a farlo, non è facile gestire il ritiro, accettare il fatto che il proprio tempo sia scaduto, convincere tifosi e sponsor che questa sia la decisione migliore da prendere. E’ davvero un settembre spietato per il tennis: dopo l’addio di Serena Williams, quello di Roger Federer annuncia la fine di un’epoca, soprannominata l’età dell’oro per i gesti bianchi. Si dice che nessun campione è più grande del proprio sport, da domani sarà sicuramente così. Oggi però sembra un po’ difficile da credere.

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