Carlos Alcaraz festeggia la vittoria agli Us Open (foto Ap)

anche la racchetta ha un nuovo re

Carlos Alcaraz è il numero 1 di cui il tennis aveva bisogno

Luca Roberto

Lo spagnolo vince gli Us Open, primo slam di una carriera precoce, che lo porta già a raccogliere l'eredità dei Big Three

Dopo i Big Three, è lui il primo dei Big Boh (ancora non sappiamo chi farà parte di questo club esclusivo, sempre che non diventi una faccenda monarchica, ma Jannik Sinner è pronto a entrarvi in tempi piùttosto repentini). Il tennis è uno sport in cui preparazione atletica, doti tattiche e mentali, coraggio e incoscienza sono essenziali per puntare a essere il migliore di tutti. Carlos Alcaraz nel variegato elenco di qualità sportive ha pochissime lacune, quasi nulle.

Ed è per questo che la vittoria agli Us Open di ieri sera contro il norvegese Caspar Ruud è una non notizia. Avrebbe conquistato uno slam più prima che poi, lo ha fatto nell'ultimo major di una stagione iniziata vincendo i primi due Master 1000 (a Miami e Madrid), oltre a una lunga serie di partite dominate soprattutto nella stagione sul rosso, donando all'esterno quella mistica impressione di strapotenza e strafottenza gentile, d'ineguagliato impatto visivo. Almeno per chi si diverta a seguire la traiettoria delle palline per le vie strette di un campo che ha le fattezze di una vera e propria geometria della dannazione. 

 

C'è stato un momento, durante l'anno, in cui il diciannovenne di Murcia è sembrato appannarsi, dopo il fulgore di inizio primavera. E' coinciso con le sconfitte contro Sinner a Wimbledon, contro Lorenzo Musetti ad Amburgo, ancora di fronte all'altoatesino a Umago, dove sembrò di una categoria inferiore. Vinse il primo tie-brek poi prese due 6-1 persino imbarazzanti per uno del suo livello, dopo aver rischiato di essere sopraffatto anche dal tutt'altro che eccezionale Giulio Zeppieri. Non aveva più portato a casa trofei dopo l'exploit madrileno, ma si sapeva che sarebbe stata solo questione di tempo. Il sorriso non è mai scomparso dal suo volto. Così nella Grande mela ha fatto pure a tempo a lasciarsi alle spalle la maledizione italiana che lo ha perseguito durante l'estate.

 

Se si cerca di individuare il quindici in cui Alcaraz ha capito che avrebbe potuto diventare il più giovane vincitore dello slam americano, lo si trova ai quarti di finale quando, sotto due set a uno con match point per Sinner sul suo servizio, ha visto afflosciarsi in corridoio la palla che lo avrebbe condannato a prendersi dell'altro tempo: i mesi che lo avrebbero separato dall'Australian Open, in cui con ogni evidenza sarebbe comunque arrivato da favorito. E invece no, ha preferito prendersi tutto e subito. E non c'era opposizione – sicuramente non Ruud che pure sarà il suo vice sul tetto del mondo – che potesse allontanarlo dal double dei sogni: primo slam e numero uno in classifica mondiale. Abbattendo il record di precocità che apparteneva a Lleyton Hewitt (20 anni, 8 mesi e 23 giorni). Neppure Nadal era riuscito a guardare tutti da lassù a 19 anni, 4 mesi e 7 giorni (pensate, aveva oltre 22 anni quando riuscì a sottrarre lo scettro a Federer).

 

Ieri sera ha passato, attaccato, sventagliato, gettando il cuore oltre l'ostacolo. Non voleva perdersi, non lo ha fatto nemmeno nel discorso finale di ringraziamento, in cui è apparso almeno un poco impacciato parlando di questioni seriose come l'undici settembre e spandendo verso il pubblico americano un "i miei pensieri sono con voi". Nel rivedere i replay a rallentatore del match, ci si accorgeva dell'unicità nella coordinazione dei movimenti. Passi leggeri ma decisi con cui si impossessa del campo e inizia a stabilire una gerarchia che sarà difficile da sovvertire, per chiunque. Carlos Alcaraz è la risposta a chi si chiedeva se dopo Roger Federer, Rafa Nadal e Novak Djokovic il tennis avrebbe trovato un sostituto all'altezza di quei Moloch. Affermativa.