Maria Beatrice Benvenuti (Screenshot YouTube- Federazione italiana rugby)

IL foglio sportivo

“Gli uomini si arbitrano così”. Parla Maria Beatrice Benvenuti, fischietto del rugby

Annagiulia Dallera

Con i suoi 29 anni è il più giovane arbitro internazionale, è l'apripista della Ferrieri Caputi in Serie A. “Bisogna essere autorevoli, mai autoritari. Essere donna è un vantaggio” 

Per anni, per secoli, il fischietto è stato lasciato in mano agli uomini quando si trattava di arbitrare competizioni maschili importanti. Finalmente la svolta: Maria Sole Ferrieri Caputi sarà la prima direttrice di gara donna nel calcio di Serie A. La sua entrata in scena è stata accompagnata da titoli di giornali e servizi televisivi ovunque. Nel rugby già un’altra sua collega, Maria Beatrice Benvenuti, ha sperimentato le gioie e i dolori di governare in campo gli uomini. Maria Beatrice è una donna forte, determinata, sa il fatto suo. La sua vita professionale (ma non solo) è un susseguirsi di scelte di carattere, di momenti in cui ha abbattuto il muro degli stereotipi e delle convenzioni. Il suo primo lavoro lo ottiene a 16 anni ed è proprio quello di arbitro di rugby. Ma Maria Beatrice si è affermata anche nel campo accademico: laurea con 110 e lode in scienze motorie e adesso è ricercatrice in medicina sportiva ad Oslo. Il suo ambito di studio? Come le donne possono fare attività fisica in gravidanza. Maria Beatrice ha anche trovato il tempo per un terzo lavoro come HR per un’azienda che cerca ingegneri petroliferi. Il rugby e il fischietto rimangono il suo primo amore. Tra le competizioni più importanti che ha diretto ci sono 3 Coppe del Mondo e 2 Olimpiadi come unica rappresentante italiana, 2 Universiadi, 19 World Rubgy Sevens Series. Con i suoi 29 anni è il più giovane arbitro internazionale di rugby.

 

Come si è avvicinata al rugby?
“Ho fatto sempre molto sport: tennis, atletica, triathlon, ma mai rugby. Invece, i miei fratelli lo praticavano e li seguivo in giro per l’Italia. Nell’estate del 2009 eravamo al mare con la mia famiglia e ho incontrato un arbitro che era stato l’unico a dare un cartellino giallo a uno dei miei fratelli. Parlando con lui ho capito che anche io volevo fare il suo mestiere”.   

Qual è il percorso per diventare arbitri?
“Ho fatto un corso che partiva a settembre. I test fisici sapevo che li avrei potuti superare perché facevo triathlon a livello nazionale. L’età minima per partecipare era 16 anni. Io li avevo appena compiuti. L’estate prima del corso l’ho passata sotto l’ombrellone a fare i quiz per prepararmi ai test di regolamento”.

Com’è stato il primo impatto con il mondo dell’arbitraggio? 
“Mi aveva accompagnato mio padre il primo giorno in aula e tutti pensavano che fosse lui che doveva partecipare alla lezione. Quando gli altri hanno capito che in realtà ero io che volevo fare l’arbitro ci fu un silenzio di tomba. Adesso quella classe è diventata come una seconda famiglia per me. Mi hanno sempre accettato e supportato”. 

E la prima volta in campo com’è andata?
“A fine novembre 2009 ho avuto il mio esordio. Sono arrivata due ore in anticipo e stavo giocando a biliardino con i miei fratelli. Un allenatore si è unito a noi. Ha fatto una battuta sul fatto che noi arbitri non siamo mai puntuali. Gli ho risposto: ‘Guarda che sono io l’arbitro’. Lui continuava a ridere pensando che stessi scherzando. Ho dovuto tirare fuori la designazione per fargli vedere che non lo stavo prendendo in giro”.

A chi andava contro il suo desiderio di fare l’arbitro cosa diceva?
“I genitori di alcuni compagni di squadra di mio fratello andavano da papà e mamma e dicevano che erano matti, che non era un mondo per me, che non sarei mai andata da nessuna parte. Ho continuato a fare quello che amavo e fortunatamente la mia famiglia mi ha sempre supportato nel mio percorso. Bisogna rispondere con un sorriso a queste persone perché è la migliore arma”. 

Che tipo di arbitro è?
“Per me deve essere autorevole e mai autoritario. Vi è una sottile linea tra i due, ma è un concetto fondamentale. Ci tengo anche a preservare la mia femminilità. A me piace lo smalto e mi voglio sentire libera di metterlo anche quando sono in campo. L’essere donna per me è un valore aggiunto, non qualcosa da nascondere”.

Che cosa le ha insegnato fare l’arbitro?
“È stata una grande scuola di vita. Sono sempre stata molto timida, mi nascondevo dietro ai miei genitori, non parlavo mai. Quando sei in campo ti devi relazionare con 30 persone ed è stato come un triplo salto mortale. Ero una 16enne in un mondo di uomini. Mi sono trovata in campo con gente più grande di me. Gli allenatori mi urlavano contro. Qualcuno una volta mi ha tirato addosso anche le bandierine di linea”.

 

Nel 2016 le è capitato un brutto episodio. Un giocatore l’ha placcata alle spalle durante una partita di Serie A. A distanza di anni che cosa si porta dietro di quell’episodio? 
“Credo sia stato un bruttissimo gesto. Non è sport. Non è rugby. Quel giorno ho subito sia un danno fisico che mentale. Ancora adesso, se camminando per strada sento che c’è qualcuno dietro di me, ho paura. In quel periodo ho imparato il valore della resilienza. Ho cercato di tornare il più presto in campo”. 

 

Era al picco della sua carriera in quel momento. Era appena tornata dalle Olimpiadi di Rio dove è stata l’unico arbitro italiano. Che cosa si ricorda di quella esperienza?
“Partecipare alle Olimpiadi era il mio cosiddetto sogno nel cassetto. Essere l’unica rappresentante italiana è stato un gran orgoglio per me, ma anche per tutto il settore arbitrale. Prima di arrivare in Brasile abbiamo fatto 10 giorni di preparazione in Argentina e poi come una squadra siamo partiti tutti insieme per andare a Rio. Alloggiavamo in un villaggio militare. Eravamo in mezzo alla giungla con le scimmie intorno e i soldati che si allenavano alle 5 di mattina”.

 

Com’è l’allenamento di un arbitro? È come quello di uno sportivo?
“L’arbitro è un atleta a tutti gli effetti. Mi alleno due volte al giorno tutti i giorni. Se sono a Roma mi alleno con le squadre. Durante una partita ufficiale non puoi fermare il gioco. Se in settimana tu ti alleni con i giocatori si possono trovare dei momenti di confronto. Noi arbitri possiamo studiare le posizioni, come fischiare in campo. Bisognerebbe essere in grado di capire una decisione arbitrale in base alla tonalità del fischio. Anche questo necessita allenamento”. 

 

È più difficile arbitrare le donne o gli uomini?
“Le donne sono molto più complicate. Devi sempre avere tutto sotto controllo. Ci sono molte dinamiche in campo che devi saper leggere, altrimenti perdi il focus della partita. Gli uomini sono più prevedibili, più strutturati. Sono molto semplici. Sai che faranno sempre quel fallo. Ti testano molto: devi dimostrargli, in quanto arbitro donna, che ne capisci, che tu sai quello che stai facendo”. 

Qual è la parte più bella del tuo lavoro?
“Quando entro in campo sono nel mio mondo. Mi isolo e non sento più i fischi e gli insulti. Il mio sogno è far vedere a una bambina, una ragazza seduta sugli spalti che anche lei può farcela se lo vuole. Bisogna normalizzare che una donna voglia giocare a calcio, che voglia fare l’arbitro. Bisogna continuare a bussare alla porta. Prima o poi qualcuno risponderà e se nessuno risponde, tu sfondala la porta”. 

Qualche consiglio per le sue colleghe che si stanno affermando nel mondo dell’arbitraggio: Clara Munarini nel rugby e Maria Sole Ferrieri Caputi nel calcio? 
“Devono continuare la strada che hanno intrapreso e devono sapere che sono un esempio sia per le donne che per gli uomini. Stanno dando un messaggio positivo a livello nazionale e internazionale. Oggi ci sono Clara e Maria Sole. Domani spero che ce ne saranno molte altre”.

Di più su questi argomenti: