Kylian Mbappé durante la conferenza stampa di fine maggio con cui ha annunciato di aver prolungato il suo contratto con il Paris Saint Germain (Ansa) 

Il Foglio sportivo

La nuova vita della Ligue 1

Moris Gasparri

Si riparte dalla telefonata di Macron per bloccare Mbappé a Parigi: era questione d’interesse nazionale. C'è anche nuova liquidità grazie all'ingresso del fondo Cvc. Mentre viene frettolasamente trascurato all'estero, il sistema calcio francesce punta a formare giovani talenti che poi finiscono in nazionale

Nell’incapacità italiana di leggere in profondità le trasformazioni calcistiche delle altre nazioni, figlia di una presunzione di superiorità tipica delle aristocrazie in decadenza, la Ligue 1 che in questo weekend inaugura la propria stagione occupa un ruolo esemplare. Nella geografia mentale del tifoso italiano la principale competizione del calcio francese è infatti da sempre vista come un non-campionato privo di interesse e fascino, con una competitività generale di basso livello e dominato da una squadra “post-storica” e “artificiale” come il Psg in nulla paragonabile alla gloriosa e maestosa storicità dei grandi club italiani.

 

In quella degli addetti ai lavori dell’industria italica del pallone la Ligue 1 è anche l’ultimo appiglio per non sprofondare del tutto nella depressione da declassamento generata dalle classifiche dei ricavi delle cinque grandi leghe calcistiche europee: il massimo campionato francese è infatti l’unico che viene dopo la Serie A, mentre gli altri viaggiano su binari differenti, o, addirittura, abitano altre galassie.

 

Questa visione non tiene però in considerazione due episodi molto recenti, interessanti perché esprimono un cambiamento in ottica futura che riguarda sia gli equilibri del calcio europeo, sia una grande trasformazione della cultura sportiva francese. Partiamo dal primo, l’accordo siglato nella scorsa primavera tra il fondo britannico Cvc, in passato lungamente in trattativa con la Lega di Serie A, e la Ligue de Football Professionel, che organizza la Ligue 1, per l’acquisizione del 13 per cento della nuova media-company creata in joint venture, alla cifra di un miliardo e mezzo di euro. La scorsa settimana sono stati erogati i primi finanziamenti diretti alle squadre, un’iniezione di liquidità che, ad esempio, sta alla base dello shopping di club non così blasonati come Rennes e Nizza nella nostra Serie A. Un piano industriale, e l’esperienza di Cvc nella gestione dei diritti media sportivi, aiuteranno con ogni probabilità la crescita internazionale della Ligue 1 e la cessione dei diritti esteri, al momento business dall’importo quasi irrisorio (70 milioni annui), ma l’unico settore di reale crescita dei ricavi per le grandi leghe.

 

Si tratta di una svolta importante, soprattutto in una nazione come la Francia in cui nel calcio di vertice, come vedremo tra poco, ha sempre dominato la logica “politica” del sistema Stato-federazioni su quella “americana” delle leghe votate alla massimizzazione del business (non casualmente Cvc nel suo comunicato ha tenuto a ringraziare “lo Stato francese”). Il caso di successo della Bundesliga dimostra poi come non sia sempre vero che il principio dell’equilibrio competitivo agisca da condizione necessaria per la crescita di interesse all’estero. Avere un super-top team è altrettanto importante, e ancora di più avere super-giocatori, fattori che hanno un peso non indifferente in sede di negoziazione dei contratti futuri. 

 

Il secondo episodio riguarda proprio uno dei super-giocatori suddetti, Kylian Mbappé, che della possibile crescita di appeal della Ligue 1 è in senso attuale e potenziale il soggetto storico principale. Nella telenovela circa la sua permanenza al Psg, un ruolo non secondario nel rifiuto del trasferimento apparentemente già concluso al Real Madrid è stato giocato da una telefonata effettuata del presidente Macron al calciatore, motivata, a detta dello stesso Macron, dalla necessità di trattenere la principale stella del calcio mondiale in Francia poiché questione d’interesse nazionale, riguardante immagine e interessi del Paese.

 

Alla luce di quanto sopra analizzato, queste parole acquistano un senso per nulla retorico. Un intervento irrituale, ma che ha una genesi profonda da cui partire per comprendere la sua novità. Nella nazione che più di ogni altra ha creato le forme organizzative della politica moderna, anche il calcio è il più politicizzato di tutti, non nel senso oggi maggiormente in voga dell’attivismo individuale degli atleti, ma in una precisa logica burocratico-istituzionale. Le dimensioni privatistiche del pallone, leghe e club, sono storicamente sempre state funzionali e asservite a quella pubblico-politica, che in campo sportivo risponde ancora ai dettami della pedagogia nazionalistica voluta da De Gaulle dopo la disfatta sportiva delle Olimpiadi di Roma 1960 chiuse con zero ori: far risplendere il buon nome della Francia sui campi di gara di tutto il mondo, e quindi selezionare e formare talenti allo scopo, mobilitando ingenti risorse pubbliche e private, ma sempre sotto la guida statale.

 

A livello calcistico la nazionale francese è la nazione, in un’intensità politica quasi sacrale e imparagonabile agli altri paesi europei. Si parla spesso del grande modello storico dei centri federali, l’Institut National du Football, creato nel 1973 e, dal 1997, trasferito nel castello di Clairefontaine, a cui oggi se ne aggiungono altri quattordici sparsi su tutto il territorio nazionale. Ma il cuore dei successi calcistici francesi risiede anche e soprattutto nella “sacra” missione repubblicana di cui sono da decenni investiti i club professionistici: formare giovani talenti nelle proprie accademie. Non sorprende, dunque, che precise misure legislative obblighino gli stessi a investire ingenti risorse nella formazione di giovani calciatori professionisti, adottando un rigoroso mix di allenamento, studio, valutazione tecnico-scientifica e supporto medico-psicologico (en passant, il club apripista nella nascita delle accademie, sempre nel 1973, fu il Nancy, che ne affidò la direzione a un emigrato piemontese di nome Aldo Platini, padre del più famoso Michel).

 

E poco importa se la maggior parte dei campioni francesi, dopo l’apprendistato giovanile, sia sempre storicamente migrata verso campionati stranieri più ricchi e blasonati della Ligue 1: è la Francia che deve vincere, e fintanto che gli stessi calciatori hanno la possibilità di esprimersi con la maglia della nazionale nelle grandi competizioni internazionali (create dallo spirito francese), lo scambio con l’estero è virtuoso. 

 

Tra il sovranismo calcistico repubblicano dei Bleus e il municipalismo calcistico delle varie Marsiglia, Bordeaux, Montpellier, Lilla espresso dalla Ligue 1, non c’è mai stata partita. Ma se il municipalismo calcistico porta oggi il nome di Parigi (e non più di un suo arrondissement semi-periferico, Saint-Germain-des-Prés), la città-capitale che corrisponde alla nazione nella sua totalità, le cose possono cambiare. Rendere competitiva e attrattiva la Ligue 1, fare in modo che il mondo si interessi del campionato francese e trasformare il suo club più ricco e forte nel club-vessillo del sovranismo repubblicano che risplende sui campi di gara mondiali, ovvero quelli della Champions League, potrebbe essere il nuovo orientamento della cultura sportiva francese del XXI secolo, ovviamente grazie anche alle risorse economiche di un altro sovranismo, quello energetico qatarino. 

 

Oltre ai motivi di strategia industriale, ce n’è anche uno culturale. Parigi, quindi lo Stato francese nella sua totalità, è da tempo alle prese con fratture identitarie di tipo comunitaristico, e il calcio non è esente da questo terreno di lotta. Il Psg in questi anni è diventato un rifugio simbolico delle seconde e ormai terze generazioni con sangue dell’Africa ovest che spesso vivono nelle banlieues della cintura nord della capitale da “spatriati”, idolatrando i calciatori e ascoltando in loop i trapper amici dei calciatori del Psg, senza sentirsi pienamente cittadini francesi. Macron, grande nemico del separatismo comunitarista, in questi anni ha a più riprese parlato della cintura nord-parigina come di una potenziale Silicon Valley francese, terra di opportunità e di vitalità demografica, nella nazione in cui la demografia conta più che altrove.

 

Mbappé, nato e cresciuto in banlieue parigina a Bondy, è l’espressione più significativa e visibile della visione utopica macroniana, colui che, come qualche suo concittadino disse dopo la vittoria ai Mondiali del 2018, rimuove la vergogna di essere nati in un posto simile. Trattenerlo a tutti i costi (in senso letterale) in Ligue 1 ha anche questo significato non secondario. Chiudiamo tornando alle latitudini italiane da cui eravamo partiti. Sarebbe stato pensabile un intervento diretto nell’industria del calcio da parte di Draghi, sulla scia di quelli di Macron e Johnson? Risposta molto semplice: no. È eloquente come il Pnrr non contempli minimamente la Serie A nei suoi numerosissimi interventi, dove l’unica dimensione sportiva menzionata è quella della generica attività motoria. Nella mentalità delle classi dirigenti politiche e burocratiche italiane, per una lunga serie di ragioni, quasi nessuno crede veramente al calcio come risorsa strategica in senso industriale.

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