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Il Foglio sportivo

Il feroce PSG, la squadra col deserto intorno

Andrea Romano

Le spese compulsive del club francese e la crisi delle altre della Ligue 1

Restaurazione e rivoluzione non sono concetti poi così antitetici. Perché dopo essersi impossessati del potere sono mossi entrambi dallo stesso bisogno. Quello di costruire una legittimazione in grado di eternarli. Serve un racconto epico capace di creare simboli nei quali identificarsi. E una retorica condensata in frasi spot facili da ripetere. Due mesi fa il rapido naufragio della Superlega era stato accolto da pubbliche manifestazioni di giubilo. La tirannia dei ricchi era stata ricacciata indietro, si era urlato. Il calcio aveva confermato la sua essenza di gioco del popolo, si era ululato. Un’allucinazione collettiva che era diventata dogma indiscutibile. Solo che adesso l’attualità ha iniziato a raccontare una versione molto diversa della storia.

Tutto ruota intorno a un club. Anzi, al suo proprietario. Perché Nasser Al-Khelaifi era stato indicato come uno dei grandi sabotatori della competizione sovranazionale che avrebbe finito col fagocitare il gioco tanto caro alla working class. Il suo PSG si era chiamato subito fuori. Per motivi morali. “La Super Lega non difende il calcio – aveva detto il presidente ad Agence France Presse – non si può rompere con la tradizione secondo cui qualsiasi squadra può realizzare i propri sogni. Il calcio esiste da tanti anni, la Super Lega non aveva a cuore gli interessi dei tifosi”. Tutto giusto, tutto molto ragionevole, tutto condivisibile. Ma anche contraddittorio. Al-Khelaifi non è esattamente una figura sovrapponibile a quella di Robin Hood. Perché è molte cose e tutte insieme. È il nuovo presidente dell’Eca, siede alla destra di Ceferin nel Comitato esecutivo della Uefa (fra i compiti dell’organo c’è anche la “regolamentazione e supervisione della contabilità”), è membro del consiglio della Lega Professionale Francese. Ma è anche il presidente di BeIn Media Group, la società che detiene BeIn Sports, il broadcaster che ha rinnovato con la Uefa l’accordo per i diritti tv in Medio Oriente e Nord Africa. Per un valore di circa mezzo miliardo di euro.

Adesso siamo arrivati in quel periodo dell’anno in cui il nome di Nasser Al-Khelaifi viene ripetuto con una certa frequenza. Perché il PSG non acquista, accumula. Non progetta, ammassa. Un campione sopra l’altro, un fuoriclasse stipato addosso all’altro. Una squadra da videogame, dove i nomi vengono prima delle idee. Perché poi tanto qualcuno troverà il modo di farli giocare assieme. E se non ci riesce, ci penserà qualcun altro.

In questi primi giorni di mercato sono arrivati già tre parametri zero: Donnarumma (stipendio netto: 12 milioni l’anno), Sergio Ramos (una decina), Wijnaldum (altri 10). Il colpo è stato “soltanto” uno: Hakimi. La trattativa si è chiusa in fretta: 70 milioni all’Inter e altri 10 (non si negano a nessuno) al giocatore. Senza dimenticare che l’8 maggio, ossia 4 giorni dopo aver perso la semifinale di Champions League contro i “cugini” del City, era arrivano il rinnovo di Neymar: 36 milioni a stagione, 7.5 in più rispetto a prima. In pratica in una settimana di mercato il PSG ha già bruciato 170 milioni di euro. Solo gli stipendi dei nuovi acquisti pesano più dell’intero monte ingaggi di 13 squadre della Serie A, dal Torino in giù. Ma c’è un dato che riesce a scattare un’istantanea ancora più nitida. Il PSG spende per i tre portieri circa 23 milioni di euro l’anno. Più o meno quanto Spezia, Crotone e Verona per gli stipendi dell’intera rosa.

La crisi economica del Barcellona rischia di diventare un’occasione per i parigini. La montagna di debiti accumulati obbliga i bluagrana a ridurre il monte ingaggi di circa 187 milioni. Trovare un nuovo accordo con Messi diventa difficile. Così il PSG si è fatto avanti con l’argentino. E ha già fatto sapere di voler accogliere anche Paul Pogba. Acquisti isterici e compulsivi, che raccontano una realtà parallela che non sembra aver risentito della crisi legata alla pandemia. Secondo Deloitte il PSG è il settimo club per fatturato (540 milioni, il 15 per cento in meno rispetto al 2019) e il primo per monte ingaggi (la scorsa stagione era a quota 304). Ma è soprattutto una società che vince anche quando perde, perché crea un sistema dove il successo non è economicamente sostenibile per le avversarie. Le gioie degli altri club sono incidentali. Montpellier, Monaco e ora Lille hanno messo le mani sulla Ligue 1 a caro prezzo, rischiando di disintegrarsi (i monegaschi sono poi arrivati a un centimetro dalla retrocessione). Il futuro rischia di essere ancora più nero. Perché dopo aver acquistato i diritti tv del campionato francese per 800 milioni a stagione, Mediapro non è riuscita a rispettare gli impegni. Al termine di vicende piuttosto tortuose i club sono riusciti a intascare circa la metà di quanto preventivato. E quasi tutti sono con l’acqua alla gola. Secondo Jean-Marc Mickeler, uno degli amministratori delegati di Deloitte, senza una iniezione massiccia di liquidi la maggior parte dei club di Ligue 1 non “sarà in grado di sopravvivere alla stagione 2021/2022”. Il PSG è la squadra col deserto intorno, un’entità che va oltre il concetto di Superlega perché non ne ha strettamente bisogno, che obbliga a riflettere sull’idea di fair play finanziario. Perché non ha molto senso affermare che una società non può spendere più di quanto guadagna se la distanza fra poveri e ricchi è destinata solo ad aumentare. Non c’è club che non abbia comprato il proprio blasone con il blocchetto degli assegni, ma il modo in cui lo sta facendo il PSG è feroce e inedito, quasi volgare. E smentisce quella frase pronunciata da Al-Khelaifi a proposito di “rompere con la tradizione secondo cui qualsiasi squadra può realizzare i propri sogni”. Una assolutismo sportivo che nessuno sembra voler tenere a freno. D’altra parte, come diceva Ennio Flaiano, “Le dittature degli altri non ci danno fastidio”. 

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