Sulla terra rossa di Parigi

Nadal resta campione anche quando ormai non ha più voglia di esserlo

Giorgia Mecca

Il tennista spagnolo domenica giocherà la sua trentesima finale di un torneo del Grande Slam e cercherà di conquistare per la quattordicesima volta il Roland Garros, il ventiduesimo Slam di una carriera incredibile. Ma l’ultimo ballo si avvicina

C’è una scritta che prima non c’era sul campo Centrale del Roland Garros: “La vittoria appartiene ai più tenaci”. Chissà se l’organizzazione del torneo ha deciso di installarla proprio quest’anno per salutare Rafa Nadal. Il tredici volte campione sulla terra rossa, che domenica giocherà per il quattordicesimo titolo, quest’anno ogni volta che ha avuto un microfono a disposizione ha tenuto a precisare: “questa potrebbe essere la mia ultima partita qui dentro”, senza troppi giri di parole e senza sensibilità per tutti coloro che soffrono già di nostalgia preventiva.

 

Un’altra cosa che ha detto Nadal  in questi giorni francesi è che non è una persona molto attenta ai numeri e alle statistiche, in fondo ha realizzato tutti i suoi sogni, ha precisato, come dicono le persone in pace, che coniugano la propria carriera al passato prossimo.
 

Eppure non c’è niente in Rafa Nadal che faccia pensare alla pace. Basta guardare il modo in cui entra in campo, sudato marcio all’inizio del palleggio, ostinato nei tic e nel dolore, sporco di terra anche sulla schiena. Lo spagnolo è sceso in campo nel giorno del suo compleanno (sono trentasei ma sembrano cinquanta) per giocare la semifinale contro Alexander Zverev, il tedesco che siamo abituati a definire giovane in confronto ai fantastici tre ma giovane ha smesso di esserlo. Il numero tre al mondo, nove anni in meno dell’avversario, era in cerca della posizione numero uno del ranking, è uscito dal campo in stampelle per un brutto infortunio alla caviglia. Prima di cadere e di farsi molto male, ha giocato tre ore e tredici minuti, il tempo necessario a Nadal per vincere il primo set e assicurarsi il tie break del secondo.

 

The last dance. Ci siamo quasi. Lo dicono le parole, lo conferma l’atteggiamento del corpo, le ecografie che mostrano che nel corpo dello spagnolo non c’è più nulla che sia al proprio posto. Zoppica ormai anche quando cammina, vive con antidolorifici e asciugamani da stringere in mezzo ai denti perché così, pare, il male fa un po’ meno male. Il piede sinistro morde, si ribella, ha già vinto lui, Nadal si è rassegnato a convivere con questo trauma, a camminarci sopra trattenendo il respiro.
 

Domenica sul Campo centrale Rafa Nadal giocherà la sua trentesima finale di un torneo del Grande Slam e cercherà di conquistare per la quattordicesima volta il Roland Garros, il ventiduesimo Slam che confermerebbe il vantaggio rispetto a Djokovic e Federer, gli altri due cannibali.

Non un sorriso in tutte le partite che ha vinto; né contro Auger Aliassime, né contro Djokovic, né contro Zverev. Certo, viene da chiedersi, cosa c’è da ridere durante una partita in cui non fai altro che schivare i colpi dell’avversario, in cui avresti voglia di piangere dall’inizio alla fine, tre ore in campo a sistemare le bottigliette al proprio posto per dimenticarsi di ciò che c’è intorno, di quanti anni hai, di quanti te ne senti, di quanto sei stanco, di quanti minuti della tua vita hai passato a rincorrere una pallina. In definitiva per impedirti di farti la domanda più crudele: “ma cosa ci faccio ancora qui?”. In fondo lo ha ribadito lui stesso, i suoi sogni si sono tutti realizzati.

Oggi pomeriggio, subito dopo aver vinto il primo set dopo avere annullato quattro set point all’avversario e oltre settanta minuti di gioco, ha guardato il suo box con una espressione che non aveva niente di felice, di leggero. Di nuovo: “Ma cosa ci faccio io qui?”. Pochi minuti più tardi, dopo uno scambio di quarantaquattro colpi, è stato lui a conquistare il punto. Per abitudine, per forza d’inerzia, perché i campioni non smettono mai di essere campioni anche quando non hanno più voglia di esserlo.

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