Giro d'Italia. Cavendish è un rinvio dell'età adulta

Giovanni Battistuzzi

A Balatonfüred l'inglese ritorna a vincere al Giro dopo otto anni e trecentoquarantasette giorni. Ha detto: "Sono vecchio ma sono sempre io", eppure non è del tutto vero. Questione di sguardi.

Otto anni e trecentoquarantasette giorni fa Arnauld Démare era un giovane velocista che ancora cercava il suo posto nelle volate (nonostante avesse già vinto una decina scarsa di corse) e sognava il suo primo Tour de France; Fernando Gaviria aveva da poco debuttato tra i professionisti; Biniam Girmay aveva tredici anni e non sapeva ancora cosa avrebbe fatto da grande; Jakub Marezcko era al terzo anno di dilettanti ed era incerto sul suo futuro.

 

Otto anni e trecentoquarantasette giorni fa Mark Cavendish vinceva la sua ultima tappa al Giro d’Italia, e sino a poco più di un anno fa era lecito pensare che sarebbe stato davvero il suo ultimo successo al Giro. Dopo il traguardo della Gent-Wevelgem del 2020 s’era commosso in diretta tv, aveva detto che quella poteva essere l’ultima sua gara. Non aveva un contratto per la stagione successiva, non riusciva a vincere da oltre due anni. Quella non fu la sua ultima gara, non fu la sua ultima stagione, e le vittorie tornarono ad accumularsi nel palmares. Oggi, l’ennesima, la centosessantesima di una carriera che l’ha visto essere il velocista più forte al mondo, l’ha visto in crisi, sembrare essere la negazione del ciclista che era stato, salvo poi ritornare alle vecchie abitudini, cioè senza nessun’altra ruota davanti, a braccia alzate sotto lo striscione d’arrivo. Come a Balatonfüred al termine della terza tappa del Giro d’Italia. Otto anni e trecentoquarantasette giorni dopo la sua, ormai, penultima volta.

 

“Sono vecchio ma sono sempre io, ho vinto tanto. Ma sono sempre io”, ha detto Cav dopo l’arrivo, al microfono di Stefano Rizzato. Che sia invecchiato è fuor di discussione, che sia sempre lui anche, difficile poter pensare che la sua anima sia trasmigrata in un altro corpo, le somiglianze con il Cav del passato sono troppo evidenti. Eppure non è lui davvero, o meglio non lo stesso di anni fa. C’è qualcosa di diverso nel suo sguardo, nel suo modo di sorridere. La baldanza un po’ spaccona di un tempo ha lasciato spazio a una dolcezza che male si addice a un uomo che si lancia a oltre sessanta all’ora in uno sprint.

  

Una dolcezza che non è dissimile da quella che prova una parte degli appassionati di ciclismo a rivederlo lì, contento e vincente. Perché le vittorie di Cavendish sono un regalo per tutti coloro che al ciclismo si sono avvicinati anni fa e che hanno visto i suoi successi in età adolescente o postadolescente. Perché se anche la scienza impone un limite biologico per l’ingresso nell’età adulta, lo sport ha la facoltà di posticiparlo. O almeno sino a quando il proprio campione se la gioca ancora nelle grandi corse. E finché vince, si resta nel limbo della possibilità di scelta, si può ancora decidere da che parte stare. Tutti quelli che avevano scelto Cavendish anni fa, nel 2008, quando a Catanzaro vinse la sua prima tappa al Giro d’Italia, possono ancora fare quella scelta. Dei primi dieci di allora – Robert Forster, Daniele Bennati, Assan Bazayev, Mirco Lorenzetto, Erik Zabel, Robbie McEwen, Tony Martin, Paolo Bettini, Koldo Fernandez – non corre più nessuno; di chi c’era a quell’edizione sono rimasti in gruppo solo Mikaël Cherel e Vincenzo Nibali. E lui, Mark Cavendish, che è vecchio, ha vinto tanto, e che forse non è più lo stesso, ma sempre molto veloce.

  

Il Giro domani riposerà senza riposare affatto. La mattina ci sono gli aerei che riporteranno in Italia i corridori dall'Ungheria. Si ripartirà mercoledì verso l'Etna. Mathieu van der Poel in cima c'arriverà in maglia rosa.

 

Mattia Bais in Italia ci tornerà con 351 chilometri pedalati lontani dal gruppo, e avanti, su 396 (quelli a cronometro sono esclusi). Quindici in più del compagno di squadra e di avventure Filippo Tagliani. Oggi al fianco dei due c'era Samuele Rivi, uno che si fa mai troppi problemi a cercare e trovare la fuga

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