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Il foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA

Il calcio e la dolce poetica del nulla

Alessandro Bonan

Il pallone è bellezza, partecipazione collettiva a una discussione che, nella sua vacuità, rappresenta essa stessa una poetica, una forma di espressione che non morirà mai. Ed è questo che consola. anche dopo una disfatta come quella dell'Italia contro la Macedonia del nord

Per i nostalgici il calcio non possiede più la poesia di una volta. Anche se la poesia non è mai quella di ieri, né quella di domani: la poesia è di sempre. Ed è operazione dannosa e inutile cercare non solo di dare una scadenza ma anche dei significati. Che esistono, per carità, ma non posseggono maggior valore a seconda del tempo in cui vengono raccontati e soprattutto non sono così importanti. Per qualcuno di molto ispirato, le cui iniziali stanno per J.M. (non è difficile risalire al suo nome per intero), addirittura la poesia “non dice nulla ma ordina semplicemente le diverse opzioni”. 
Magnifica interpretazione, sorprendente rivelazione.

 

Quindi ai famosi nostalgici che cosa dobbiamo dire? Innanzitutto che la loro è una svogliata attitudine, una consumazione acritica della realtà. Le “opzioni” di cui parlava J.M. presuppongono una scelta, magari anche sofferta, proprio perché legata a un passato con cui tutti devono fare i conti, e nessuno più di J.M. lo sapeva. Ma la poesia si affranca da ogni schiavitù, rievocando il ricordo, quando ne è oggetto, in maniera spesso liberatoria. Questo non significa che dobbiamo perdere la memoria, ma conservare di lei una forma critica. Se così è, anche il calcio è opzione, libertà, poesia che oggi come ieri “non dice nulla”, per dire tutto. È bellezza, partecipazione collettiva a una discussione che, nella sua vacuità, rappresenta essa stessa una poetica, una forma di espressione.  Per questo motivo, il calcio non morirà mai. 

 

È questa l’unica certezza che abbiamo nel momento in cui, delusi per il comportamento della nostra Nazionale, ci sentiamo un po’ smarriti e orfani, privati di un appuntamento, quello dei Mondiali ogni quattro anni, che ha accompagnato la nostra vita fino alle recenti disavventure. E infatti, sciolta l’ultima treccia legata ad una partita maledetta come quella contro la Macedonia del Nord, pronunciato un sacrosanto e severo biasimo sulla gestione politica e finanziaria del nostro calcio, di cui paghiamo una inevitabile conseguenza tecnica, ecco che subito ci consoliamo con il campionato e la passione per la squadra del cuore, per il nostro giocatore preferito, per il risultato, che sia vittoria oppure sconfitta. Non è questione di pubblicistica, quella che sostiene una industria che produce denaro e quindi molteplici interessi, non è la stonata partecipazione al coro dello spettacolo secondo cui “the show must go on”, non è un maldestro tentativo di prolungare la vita del giornalista sportivo, mestiere eternamente in bilico. Non è niente di tutto questo. È una intima necessita, è una forma d’amore, è la voglia di resistere alle brutture che ci circondano. È la nostra poetica del niente che ci consola e rende più felici.

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