Foto tratta dal profilo Facebook della Reyer Venezia

Solo a Venezia i tifosi non sono tornati al palazzetto

Francesco Gottardi

La Reyer è la squadra più vincente degli ultimi anni. Un paradosso normativo spinge il tifo organizzato a non assistere alle partite. E il resto del palasport è muto: “Più facile scendere in campo in trasferta”, accusano i giocatori

“Giochiamo in un catino. Strapieno, senza aria condizionata. Impossibile vedere i giocatori di una finale con la lingua fuori per il caldo”. È una delle conferenze più celebri di Gianmarco Pozzecco, anno 2019, quando la Reyer Venezia superava la sua Dinamo Sassari al termine di una serie scudetto al cardiopalma. E “la sauna del Taliercio”, così scrivevano i quotidiani, rimbalzò per tutto il paese: quasi un distintivo su quel tricolore. Ne è passata di acqua sotto i ponti. Intanto il vecchio palasport di Mestre dispone finalmente di un impianto di climatizzazione. Ma soprattutto è semivuoto. Mentre l’Italia del basket torna a riempire le gradinate, la squadra più titolata degli ultimi cinque anni sente soltanto l’eco dei propri canestri. Al Taliercio non si tifa più.

“Sono stanco dei brontolii del nostro pubblico: vi aspettate che giochiamo sempre ad alti livelli, ma l’atmosfera in casa è la peggiore dell’intero campionato. È più facile scendere in campo in trasferta”, è il duro sfogo social, in queste settimane, di Julyan Stone. Non esattamente l’ultimo arrivato. È a Venezia, a più riprese, dal 2014. Con la maglia della Reyer ha alzato tre trofei ritagliandosi un ruolo chiave di uomo ombra – guardia, play, ala grande: nessuno ancora lo sa – dietro i successi orogranata. Ed è un leader carismatico, megafono in mano e curva ai suoi piedi a fine partita. Una volta. “Ma adesso dove siete finiti?”, critica il giocatore. “Non c’è energia nel palazzetto. Applausi per gli avversari e sbuffi per noi. Il problema è che vi abbiamo abituato troppo bene. Questo gruppo ha vinto tutto e continua a dare il massimo. Siamo ancora in corsa per tutti gli obiettivi, voi non fate che sedervi inermi”.

 

È una situazione paradossale. Stone e compagni – il pensiero è comune – non ce l’hanno con la tifoseria organizzata. Dove sia finita si sa: fuori dal palasport, ogni benedetta partita. Questione di restrizioni e coerenza. In ogni impianto sportivo del paese, vige ancora l’obbligo di mascherina Ffp2 sugli spalti: scalmanarsi come curva comanda, nel rispetto delle norme, è semplicemente inconciliabile. Basta guardarsi attorno. L’ultimo derby di Bologna, per esempio esempio: coreografie da brividi, decibel dei vecchi tempi. E mascherine abbassate. Da Treviso a Sassari. Piaccia o no, in tutto il resto del paese le forze dell’ordine ormai sorvolano. Concedono libertà. A Venezia è molto più complicato. Perché se la Digos chiude un occhio ne risponde il questore. Se lo fa il questore ne risponde il sindaco: Luigi Brugnaro, che è anche lo storico proprietario della Reyer dal 2006.

Quindi se la curva entra e allenta i vincoli incappa in multe salatissime. Da qui la scelta più drastica, ma a prova di legge. Il problema è che così il Taliercio è senz’anima. Messo a nudo: la Reyer si ostina a costruire basket circondata da un pubblico da salotto, languido e viziato. Lamenti senza cultura sportiva, da cui il j’accuse di Stone. Il ciclo di Walter De Raffaele, al timone dal 2016 (da vice dal 2011), rappresenta un unicum in Italia e in Europa. Alle porte girevoli del basket moderno, Venezia ha preferito l’identità e un gruppo di veterani da puntellare ogni stagione. Questa è una delle più complicate, ma la Reyer ieri ha centrato gli ottavi di Eurocup e sta riacciuffando il treno playoff: le squadre del coach livornese spesso e volentieri ingranano dalla primavera in poi. Non basta il periodo no a spiegare uno spettacolo desolante.

È come se lo Juventus stadium si spegnesse di colpo. Nell’ultima gara di Serie A, domenica scorsa contro Tortona, il Taliercio contava quasi 2.000 spettatori. A sostenere attivamente gli orogranata, soltanto una ventina. Un manipolo improvvisato, su le mani e su le mascherine, che al silenzio di tomba proprio non ci stava. Il resto, mummie. L’unico sussulto del palasport al completo è arrivato nel terzo quarto, quando la Reyer dava la spallata decisiva alla partita. Poi, mentre gli avversari tentavano la rimonta, di nuovo fischi. Risultato? Sottobanco la società le sta provando tutte. ‘Arma’ i più volitivi con sciarpe e trombette. È tutta un ‘vorrei ma non posso’ con gli ultras all’esterno, in fervida attesa del loro rientro. Ma alla fine allarga le braccia: perfino i ripetuti inviti di Leorey, la mascotte ufficiale a bordocampo, cadono nel vuoto. Nell’Nba del tifo standardizzato, se non altro al ‘clap your hands’ del tabellone spettatore risponde. A Venezia invece, quando in odor di vittoria qualcuno canta “tutti in piedi per questa Reyer” la gente si alza, sì. Ma per lasciare il Taliercio prima della fine: non sia mai di trovar traffico sulla via di casa. Dalla canicola al grande freddo.

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