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si chiude il sei nazioni

Per Richard Burton il rugby era il senso della vita

Marco Pastonesi

La passione travolgente dell'attore per la palla ovale. D'altra parte chi nasce nella contea di Neath Port Talbot, sa riconoscere la forza di un pilone, valutare la strategia di un mediano di apertura, apprezzare la fantasia di un estremo

Attore? Avrebbe preferito, di gran lunga, mediano di apertura. William Shakespeare? Avrebbe preferito, di gran lunga, William Webb Ellis. Il Royal Court Theatre di Londra? Avrebbe preferito, di gran lunga, Twickenham, o meglio ancora, l’Arms Park di Cardiff. Teatro, cinema, televisione? Avrebbe preferito, di gran lunga, il rugby. L’Amleto? Avrebbe preferito, di gran lunga, Galles-Inghilterra o anche Inghilterra-Galles. Da gallese, da vero autentico genuino gallese, Richard Burton pensava che il rugby fosse educazione e religione, sport e spettacolo, amicizia e complicità, emozioni e sentimenti, storia e geografia, insomma, il senso della vita.

Dieci novembre 1925. Dodicesimo di 13 tra fratelli e sorelle. Se fosse stata una squadra di rugby, primo centro. Ma era una banda di figli, quelli di Richard Walter Jenkins Senior, in casa chiamato Daddy Ni, minatore, e di Edith Maude Thomas, casalinga. Si erano conosciuti in un pub, il Miners’ Arm di Pontrhydyfen, un villaggio alla confluenza di due fiumi, non lontano da Port Talbot e Neath, due minime capitali ovali. Lui, minatore, lì per bere, e lei, cameriera, lì per servire. In quel pub, come per ribadire un concetto e ufficializzare un concepimento, il minatore e la cameriera si sposarono. Il tredicesimo figlio, a Edith, fu fatale: sei giorni dopo morì, di un’infezione. Pare che fosse ossessionata dalla pulizia, dall’igiene, perché terrorizzata dalla polvere, dalla silicosi, e furono proprio i residui minerari a indebolirne la resistenza e a provocarle la morte.

  

Richard Walter Jenkins Junior – Richard Burton nacque Jenkins, un cognome, se possibile, più rugbistico – ricordava il padre come “un bevitore da 12 pinte di birra al giorno” e la madre come “una donna molto forte e molto religiosa e con un viso bellissimo”. Lui prese il bere dal padre e la bellezza dalla madre. Memoria e voce furono invece un dono della natura. E molto gli fu donato dalla sorella maggiore Cecilia, per tutti Cis, che lo crebbe come se fosse suo figlio, e dal fratello maggiore (19 anni più vecchio) Ifor, che dettava le regole – Daddy Ni brillava per la sua assenza – della famiglia. Fu proprio Ifor a instillare in Richard la passione per il rugby. Un’eredità inevitabile, data la terra, la zona, la tradizione, la stessa aria che si respirava. Ifor, che giocava a rugby, gli insegnò le regole, gli trasmise lo spirito, gli accese il fuoco, gli instillò la passione, gli comunicò la filosofia. C’è una conosciuta, ma mai abbastanza, citazione – spetta a un giocatore inglese, Peter Robbins – illuminante sul patrimonio genetico del rugby: “Gli inglesi giocano a rugby perché lo hanno inventato; gli irlandesi ci giocano perché odiano gli inglesi e adorano le risse; gli scozzesi perché sono i nemici storici degli inglesi; ma i gallesi hanno un vantaggio su tutti gli altri, ognuno di loro è nato su un campo da rugby o vi è stato concepito”.

Chissà se anche Richard nacque o fu concepito su un campo da rugby. Fu comunque il primo della famiglia a frequentare un liceo: lo conquistò grazie a una borsa di studio. Daddy Ni e Ifor speravano che un giorno potesse andare addirittura all’Università di Oxford. Per campare, Richard distribuiva giornali, recapitava lettere, trasportava letame di cavalli.

Durante la Seconda guerra mondiale lavorò in una cooperativa locale, pensò di dedicarsi al pugilato o al sacerdozio o al canto, infine entrò cadetto in una sezione preparatoria della Royal Air Force, l’aeronautica britannica. Infine s’impose la sua autentica vocazione: e cominciò a recitare come Richard Burton. Burton era il cognome di Philip, il suo primo e determinante maestro. Teatro, la prima commedia nel 1943, “Druid’s Nest” di Emilyn Williams, al Royal Court Theatre di Londra. Ne avrebbe interpretate altre 24, e se di tutte una soltanto, allora l’”Amleto” di William Shakespeare nel 1953. Cinema, il primo film nel 1949, “The Last Days of Dolwyn” di Emilyn Williams. Ne sarebbero seguiti 57, e se di tutti uno soltanto, forse “Becket e il suo re” di Peter Glenville nel 1964.

A sconvolgere la sua vita, una donna. Il primo incontro, nel 1953, lo ricordava soltanto lui: a Bel Air, in California, la villa di Stewart Granger, la piscina, lei in costume da bagno, seduta, uno sguardo da sopra gli occhiali da sole, un colpo di fulmine a metà. Il secondo incontro, un colpo di fulmine stavolta intero perché da tutte e due le metà, nove anni più tardi: a Roma, il set di “Cleopatra”, lei regina, lui console, il console Marco Antonio. Pare che il primo approccio fu poco fulminante, anzi, imbarazzante. Richard la soprannominò “signorina Tette”, la giudicò “incapace di recitare”, domandò al regista “se si sarebbe rasa i peli”. Lei pensò “ecco il grande amatore, il grande spirito, il grande intellettuale gallese”. Dovevano recitare da amanti, e divennero amanti, poi marito e moglie, poi ex marito ed ex moglie, poi di nuovo marito e moglie, poi di nuovo ex marito ed ex moglie, poi anche, poi ma, poi ancora, poi però, poi sempre, poi più.

Sì: più. Una vita enorme, eccessiva, esagerata. A cominciare da quel film di Joseph Mankievicz, che definire kolossal è riduttivo: la durata salì a più di quattro ore, i costi decollarono dai previsti due milioni di dollari agli incredibili e insostenibili 40. I milionari furono anche i loro due matrimoni e i loro due divorzi per la cascata di soldi e gioielli, passione e risse, scenate e tradimenti, psicofarmaci e alcol. Cominciarono subito, con l’alcol, già ai tempi di “Cleopatra”: lei che nascondeva il brandy nelle bottiglie della Coca-Cola, lui che si presentò sul set con i postumi di una sbronza. E così sarebbe stato fino alla fine: lei che entrava e usciva da cliniche specializzate per disintossicarsi, e poi ricominciare, lui che fu ucciso da un’emorragia cerebrale provocata forse da una lite con ubriachi, e comunque con un fegato a pezzi.

“Uno spettacolo magnifico: balletto, opera e, all’improvviso, il sangue di un delitto”. Fu Richard Burton a dirlo. Se ne intendeva di spettacolo, se ne intendeva anche di rugby. Chi nasce nella contea di Neath Port Talbot, sa riconoscere la forza di un pilone, valutare la strategia di un mediano di apertura, apprezzare la fantasia di un estremo. Chi cresce con le mani sporche di carbone, sa vedere quanta energia sprigiona il sottosuolo, minerario o rugbistico.

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“Uno spettacolo magnifico: balletto, opera e, all’improvviso, il sangue di un delitto”. Liz Taylor, una volta tanto, sembrò dargli ragione: “Preferisco il rugby al calcio. Mi piace la violenza del rugby, fino a quando i giocatori cominciano a strapparsi le orecchie”. Non poteva smentirsi. La solita esagerata. E anche lui non si smentì, anche lui esagerò. Si racconta che Ifor e Richard non si vedessero da sei anni, da quando Richard aveva lasciato la moglie Sybil e le figlie Kate e Jessica per andare a vivere con Liz Taylor a Hollywood. Nel giugno del 1968 Ifor andò a trovare Richard nella sua casa a Celigny, in Svizzera, e insieme a mangiare e bere, bere molto, moltissimo, diciotto bottiglie di vino in due. Le differenze riemersero, le tensioni si scatenarono. Il litigio finì a cazzotti. Ifor ebbe la peggio. Forse per le conseguenze, o forse per la conseguenza di una caduta, rimase paralizzato, tetraplegico. Sarebbe morto per complicazioni cardiache. E da quel giorno Richard, consapevolmente, si annientò. Da alcolizzato, come suo padre.

La passione ovale di Richard Burton è testimoniata da un altro attore gallese, Anthony Hopkins, nel loro primo incontro. Accadde nel 1957. Il 19 gennaio. Un sabato mattina.

Hopkins, 17 anni, aveva ottenuto una borsa di studio per frequentare il Welsh College of Music and Drama. Ne era orgoglioso. E felice. E quando scoprì che Richard Burton, il suo attore preferito, era a casa a Taibach, sull’onda dell’entusiasmo attraversò Port Talbot, bussò alla porta e gli chiese un autografo. Richard Burton accolse lo studente con cordialità. Gli domandò chi fosse, da dove venisse, quale scuola frequentasse, quali interessi coltivasse. Gli fece l’autografo. Poi gli domandò se sarebbe andato a vedere la partita all’Arms Park di Cardiff. Hopkins gli chiese chi avrebbe giocato. E Burton si alterò: “Che cosa vuol dire chi giocherà?”. Poi lo ferì: “Non sei un vero gallese se non sai chi giocherà”. Quindi lo interrogò: “Sai chi è Bleddyn Williams?”. Hopkins bluffò: “Sì, so chi intende”. Molto tempo dopo Hopkins avrebbe ammesso che di sport non sapeva niente, di rugby ancora meno, e che dunque ignorava chi fosse quel Williams. A quel punto salutò e se ne andò. E mentre camminava per tornare a casa, fu superato dalla macchina di Burton, proprio mentre stava dicendo, o promettendo, o giurando a se stesso che voleva diventare come lui. Burton stava andando a Cardiff, a vedere la partita. Era la partita: Galles-Inghilterra. Quel Galles-Inghilterra andò male, per i gallesi, 60mila allo stadio, il resto nei pub o alla radio o alla tv: 0-3, grazie un calcio di Fenwick Allison nel primo tempo.

Sabato 19 marzo l’Italia gioca in Galles. Al Principality Stadium (il nome commerciale del Millenium), alle 15.15 (diretta su Sky). Quinto e ultimo match (e anche ultima sconfitta) del Sei Nazioni 2022. Burton non se la sarebbe persa per nessun motivo al mondo. E chissà se nel frattempo Hopkins non si sia convertito.

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