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L'Italia sarà sempre la sesta nazione. Guida al Sei nazioni

Marco Pastonesi

Francia, Galles, Inghilterra, Irlanda, Italia e Scozia giocheranno il torneo pensando alla Coppa del Mondo del prossimo anno. Lo spettacolo però cambierà, in campo non verrà fatto nessuno sconto. E gli Azzurri? Anche perdendo ogni partita, non rischia il posto, ma solo figuracce

Quindici partite in 45 giorni (dal 5 febbraio al 19 marzo), cinque fra le prime otto squadre del mondo (Inghilterra terza, Irlanda quarta, Francia quinta, Scozia settima, Galles ottava) più l’Italia (quattordicesima), quattro cattedrali esclusive (Twickenham a Londra, Aviva sulle ceneri del ferroviario Lansdowne Road a Dublino, Murrayfield a Edimburgo e il Millennium accanto all’Arm’s Park a Cardiff) più due stadi condivisi con gli altri sport (Stade de France a Parigi e Olimpico a Roma). Il Sei Nazioni s’impadronisce di Ovalia, rugby, quello “spettacolo magnifico” che Richard Burton spiegava in tre atti: “Balletto, opera e all’improvviso il sangue di un delitto”. Burton sapeva che cosa diceva: da giocatore, da spettatore, da appassionato, da gallese. Dopo lo shakespeariano Amleto del 1953, applauditissimo, celebratissimo, premiatissimo, l’attore confessò: “Avrei preferito giocare a rugby per il Galles”.

Edizione numero 23, ma 128 se si comincia a contare dalla Home Championship (le quattro britanniche) passando per il Cinque Nazioni (con la Francia). Incontri secchi, tre in casa e due fuori, due in casa e tre fuori l’anno successivo. 

Non c’è nessuna possibilità che l’Italia venga sostituita dalla Georgia (dodicesima), questo è un torneo privato, straricco per i diritti tv (quest’anno, per l’Italia, acquistati da Sky). 
Sconti sul campo non se ne fanno: il migliore modo per rispettare gli avversari – la vecchia lezione degli All Blacks – è darne di santa ragione. E questo sport, di contatto e di strategia, di coraggio e di intelligenza, si presta alla perfezione.

Fra un anno la Coppa del mondo 2023, in Francia. Le sei nazioni vivranno il torneo (hanno già cominciato a farlo da un paio di anni) con quell’orizzonte, per quella meta.

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Le Sei Nazioni ai raggi X

L’Inghilterra è, fra tutte, quella che è cambiata meno. A costringerla a cambiare l’infortunio a Owen Farrell, mediano di apertura e primo centro nonché calciatore e capitano dei Tutti Bianchi: operazione alla caviglia, fuori campo dalle sei alle otto settimane. Richiamato in servizio l’affidabile George Ford. La Madre Regina ha un potenziale enorme, un serbatoio infinito, un campionato di altissimo livello e feroce logoramento. Strano a dirsi, nonostante la posizione in graduatoria inferiore solo a Sud Africa e All Blacks, sembrerebbe meno forte dell’Irlanda (che affronterà in casa) e della Francia (fuori).

L’Irlanda, dunque: la più tosta. Nei test-match dello scorso novembre (60-5 al Giappone, 29-20 agli All Blacks e 53-7 all’Argentina), ha dimostrato una superiorità fisica, tattica e tecnica, merito dell’ampiezza del suo rugby di base, una base scolastica, merito della coesione fra vecchi e giovani, merito del lavoro delle franchigie prime nei diversi campionati europei. E se il punto debole sembrava la successione a Johnny Sexton, 36 anni, 101 “caps” e 946 punti, il mediano di apertura, calciatore, regista, leader carismatico della formazione (Vittorio Munari, sorridendo, sosteneva che fra una partita e l’altra Sexton viene messo in frigorifero per essere conservato meglio), adesso c’è Joey Carbery, neozelandese naturalizzato, fortissimo.

La Francia è la più bella Francia degli anni Duemila. Ha quel French flair che da sempre fa impazzire (godere) il suo popolo e impazzire (patire) i suoi avversari: vivacità, spontaneità, imprevedibilità. L’immaginazione – il vecchio motto del Sessantotto alla Sorbona – al potere. O come diciamo noi, invidiosissimi: rugby champagne. Una cinquantina di giocatori speciali, intercambiabili, universali, gli avanti con la velocità dei trequarti e i trequarti con la potenza degli avanti. All’esordio, contro l’Italia, si permetterà di lasciare metà dei presunti titolari in panchina o in tribuna. Pensati, impostati, preparati per essere al massimo fra quindici mesi, lo scorso novembre i Bleus hanno battuto gli All Blacks 40-25, con una superiorità senza discussioni.
La Scozia, che fino a qualche anno fa si giocava con l’Italia il Cucchiaio di legno (il poco ambito riconoscimento, simbolico e leggendario, destinato all’ultimo in classifica), continua a crescere e a stupire, se si pensa che può contare su cinque milioni di abitanti, la metà di quelli della Lombardia. È vero che fra gli scozzesi ci sono anche alcuni neozelandesi, ma questa globalizzazione così è, se vi pare, dovunque. In novembre vittorie contro Tonga, Australia e Giappone, sconfitta (onorevole: 15-30) contro Sud Africa. 

Il Galles, che aveva vinto a sorpresa nel 2021, sembra meno Galles del solito. Ma ha risorse così profonde nella tradizione, nella scuola, nei club, da poter smentire timori e dubbi. Giocatori – l’usato sicuro – contati, infermeria piena, nell’ultima parentesi internazionale il ko con gli All Blacks (16-54, poi però i neozelandesi si sono esauriti), la sconfitta valorosa con il Sud Africa (18-23), le vittorie sofferte contro Figi (38-23) e Australia (29-28). La verità è che il Galles non muore mai, al massimo – come si dice di tutti i rugbisti che tornano da William Webb Ellis, secondo la leggenda l’inventore del gioco – passa la palla. 

E l’Italia? Povera Italia. Povera giovane Italia. I più forti sono panchinari o comparse nei campionati all’estero (e chi fatica a ritornare in campo, come Jake Polledri). I meno forti sono quelli che giocano di più, ma nel vecchio campionato. Gli altri arrancano fra Celtic League e coppe europee. Qualcosa di buono si vede, ma è troppo poco per competere con le altre cinque nazioni. E Sergio Parisse, 38 anni, 142 presenze, oggi al Tolone, aspetta ormai da più di due anni di essere convocato per l’ultima partita della sua carriera in azzurro.

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