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Il Foglio sportivo - il ritratto di Bonanza

Il triste epilogo di Shevchenko

Alessandro Bonan

Catapultato in un mondo diverso, come un robot di ferro dentro una foresta piena di cristalli, Sheva aveva preso a muoversi sempre più piano, per non rompere quello che aveva intorno. Non è bastato

Come quando si rimane a occhi chiusi e ti resta, dipinta nel buio, la traccia dell’ultima immagine guardata. È solo uno scheletro, uno schizzo, l’abbozzo di un disegno, la trasfigurazione della realtà. Ecco cos’è rimasto di Shevchenko, la sua trasfigurazione, l’indecifrabile profilo. C’era una volta il calciatore che planava sul campo come un surfista sulle onde, c’è oggi l’allenatore che sopra una scialuppa malandata si allontana lentamente verso il mare aperto di una splendida e assolata Genova. Del suo passato, la malinconica allegoria, che solo il vecchio stadio, contro il suo amato Milan, in una bugiarda serata di coppa, hanno reso meno scolorita. Perché dopo partite senza vittorie e senza idee, è arrivata una sconfitta con dentro almeno un pò di sale.

Per una notte, o meglio novanta minuti, il Genoa di Sheva ha mollato la zavorra dell’ansia e si è lasciato andare con coraggio davanti gli occhi da cerbiatto smarrito dell’ex fenomenale attaccante milanista. Basterà questo sussulto di orgoglio a farlo rimanere? Non sappiamo, è tutto molto confuso, compreso l’inizio di questa storia.

Shevchenko è arrivato sulla panchina del Genoa all’improvviso, al posto di un signore che pareva stanco di stare in bilico tra l’essere considerato semplicemente bravo oppure fortunato: Davide Ballardini, da troppo tempo l’allenatore dell’ultima spiaggia. Accolto come un re, l’ucraino ha ringraziato la folla con un sorriso gentile. Dolce Sheva, hanno pensato tutti, saprai affilare le unghie quando sarà necessario? Quelli del Genoa si sono mostrati subito tranquilli, le unghie al nostro non mancano, è l’uomo giusto, hanno più o meno fatto sapere. Pare si siano basati su alcuni calcoli, chiamati altrimenti algoritmi. Secondo questi, cercando sul computer il nome di un allenatore che fosse bravo, bello, intelligente, fortunato, discretamente alto, o comunque non basso, semi biondo, poliglotta e vestito bene, spuntava il nome di Shevchenko. 

Eccolo l’allenatore, avrebbero pensato, chiamatelo subito al nostro cospetto. E così è stato. Catapultato in un mondo diverso, come un robot di ferro dentro una foresta piena di cristalli, Shevchenko ha preso a muoversi sempre più piano, per non rompere quello che aveva intorno, fino a spegnersi, proprio come un robot senza più batterie. La notte di San Siro, poteva riabilitarlo, lo sport è pieno di rinascite improvvise. Non è stato così.

È triste pensare a questo epilogo, un finale che vanifica gli ultimi accorgimenti di mercato, un contratto forte di tre anni, e la natura onesta di questo ragazzo ormai maturo, affezionato all’Italia, con la legittima ambizione di diventare un allenatore importante. È triste si, perché siamo ancora convinti che anche nel calcio come in qualsiasi altro settore della vita, l’uomo prevalga su tutto, con i suoi pregi e i suoi difetti. Senza che esistano processi matematici a confutarli, ponendoli sulla base di una scienza. Ammesso che un algoritmo sia una scienza e non il tentativo un po’ ridicolo di ridurre a mero calcolo i nostri sentimenti.
    

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