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La nuova vita di Christian Eriksen. Parla Spillo Altobelli

 Bernardo Cianfrocca

Un anno fa era sul mercato, poi il derby, il malore in campo agli Europei, la valanga di affetto

Christian Eriksen è stato protagonista di una storia collettiva, di una narrazione fatta di reazioni esplose ovunque. L’ovvia conseguenza di una tragedia, solo sfiorata, alimentata da una diretta televisiva e dall’assurdità di quanto accaduto. Il malore improvviso di un giocatore, soprattutto in campo, sembra sempre un’ipotesi fuori dal tempo. Come può un atleta, l’emblema della vigoria fisica, ritrovarsi disteso a pancia in giù con lo sguardo vuoto e il cuore in pausa? Dal momento in cui Eriksen è crollato a terra fino al selfie di scampato pericolo pubblicato tre giorni dopo, c’è stato un flusso costante di commenti, messaggi, sentimenti espressi. Qualcosa di normale in un’epoca amplificata, senza bisogno di dover sempre sindacare sull’opportunità o meno che ciò accada. Succede, così come capita che la storia da collettiva diventi poi più intima, rimanendo appannaggio di pochi, dei calciatori e degli interisti.

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Spillo Altobelli rientra in entrambe le categorie: “Da ex giocatore, il suo caso mi ha scosso molto, mi sono immedesimato in lui. Non potevo sopportare l’idea di una vita spezzata in campo, così come ora  è giusto che continui all’estero. E poi, dato il suo percorso all’Inter, mi sono sentito ancora più coinvolto”.

La storia di Eriksen all’Inter è stata incredibilmente ricca, pur essendo lunga appena due anni. La rescissione del contratto della settimana scorsa non è stata una notizia, ma una formalità da sbrigare: in Italia non si può giocare con un defibrillatore sottocutaneo. L’ufficializzazione ha comunque scatenato l’affetto e il rimpianto dei tifosi. Il sollievo di saperlo vivo e vegeto è stato in parte offuscato dalla certezza di non poterlo più vedere in campo con la maglia nerazzurra. Si potrebbe obiettare che le priorità della vita siano altre, ma non si tratta di miopia nel capirle, quanto del dispiacere di rinunciare a un giocatore che ha rappresentato la ritrovata grandeur e il ritorno alla vittoria di un club, capace anche di ribellarsi alla sua cronica tendenza all’illusione e all’autolesionismo. “C’è stato quel mese di dicembre in cui sembrava destinato alla cessione, che avesse fallito, invece è stato bravo a sfruttare le occasioni dategli da Conte e a risultare decisivo per la vittoria della Serie A”, ricorda Alessandro Altobelli.

 

La storia dell’Inter è piena di patrimoni dilapidati, grandi acquisti dalle aspettative deluse e poi rimpianti dopo essere stati spediti altrove. Una parabola che probabilmente avrebbe compiuto lo stesso Eriksen se non fosse esistita quella punizione decisiva nel derby di Coppa Italia. Quel gol, ricordato dalla stessa società nella nota apparsa sul sito e nel video pubblicato sui social per celebrare il danese, ha sfatato una maledizione. I grandi giocatori possono essere tali anche nell’Inter. E soprattutto lo possono essere gli esteti, quei fini trattatori di palla ritenuti inconsistenti quando le cose vanno male. Non è un caso che Eriksen sia stato spesso accostato all’ex attaccante olandese Dennis Bergkamp. L’espressione nordica che non lascia trasparire emozioni, la pulizia di tocco scambiata per un vezzo fine a sé stesso, quel luogo comune, travestito da antica verità, che giocare in Italia sia più difficile per chiunque, che ci vogliano caratteristiche diverse, la gamba, la grinta, la forza. “I tifosi, oltre che per l’aspetto tecnico, lo hanno amato per la professionalità, per come ha accettato in alcune partite di entrare solo per un minuto o cinque, provando comunque a fare qualcosa”, spiega Spillo.

C’è una foto, una buona base da meme, che simboleggia il momento più basso toccato da Eriksen all’Inter. È il momento di un ingresso in campo in casa contro il Bologna. Entra al 91esimo a partita già decisa: i capelli, mai così corti, sembrano grigi invece che biondi, appare più vecchio e imbolsito, il ritratto di un uomo calpestato. Diverso dal fascino con cui si era presentato alla Scala, quella vera e non del calcio, simbolo di un’Inter che tornava a inserirsi di prepotenza nel mercato internazionale. Diverso però anche dalla gioia con cui qualche mese dopo avrebbe festeggiato lo Scudetto su una delle torri di San Siro, mettendo in evidenza la medaglia dello stesso colore dei capelli e con i tifosi a fare da sfondo. Gli stessi tifosi che avevano sperato in quel riscatto e nell’inversione di una tendenza. Negli ultimi anni, nel centrocampo dell’Inter era andato di moda un prototipo deludente ma spesso riproposto, incarnato dai vari Felipe Melo, Nainggolan, Vidal: reclamati dai loro allenatori, chiamati a essere leader anche per il loro modo plateale di mostrarsi tali in campo. Hanno tutti pagato il conto di condizioni decadenti e comportamenti rivedibili. Stavolta, per imporsi non sono servite un'entrata aggressiva, la garra o la cattiveria. Sono bastati due tocchi per rifinire una ripartenza, una palla data di prima al momento giusto, con il solito distacco mitteleuropeo. Il massimo per una squadra che rivendica l’orgoglio di essere nata da un gruppo di artisti.

 

“Dopo il malore, ho detto che sarebbe stato bello vederlo in ritiro con i compagni e così è stato. Ora voglio vederlo tornare in campo. Prima, però, deve prendersi l’applauso di quel San Siro pieno che purtroppo ha visto poche volte”, dice Altobelli. A gennaio dovrebbe esserci il saluto. Lo vuole il calciatore, lo conferma la società, lo pretendono i tifosi. Con un po’ di malinconia per il mancato proseguimento, ma con la consapevolezza di essere stati bene insieme, e soprattutto di esserci ancora, gli interisti ed Eriksen celebreranno la fine della loro bella ed esclusiva storia.

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