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Il Foglio sportivo

A chi appartiene il calcio?

Moris Gasparri

Il potere del pallone non si misura solo con i risultati economici. I modelli capitalistici diversi di Juve, Inter, Milan, Napoli e Atalanta

A chi appartiene il calcio? Domanda da un milione di dollari, a cui le vicende degli ultimi mesi offrono in risposta due possibili soluzioni: la prima, agli sceicchi dei vari staterelli affacciati sul Golfo Persico; la seconda, più romantica, al popolo inteso come comunità universale dei tifosi. In altri termini si potrebbe dire che il calcio appartiene all’economia o all’antropologia, due dimensioni che difficilmente coesistono in armonia. 

Partiamo da un assunto realistico: il calcio italiano è un prodotto del capitalismo italiano, come ha raccontato con piglio analitico Nicola De Ianni in un bel libro pubblicato qualche anno fa, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere (Rubbettino), dove viene indagato e ricostruito lo stretto legame tra le vicende economiche dell’Italia repubblicana e quelle pallonare, rappresentate dalle figure dei proprietari dei principali club della Serie A. Nella storia del capitalismo italiano il calcio ha però sempre avuto uno statuto particolare: residuo pre-moderno, riserva anti-economica resa possibile dallo sviluppo economico e dalla ricchezza accumulata da alcuni proprietari con le proprie attività imprenditoriali, investimento legato all’onore, al prestigio e ai vincoli familiari in un’ottica di dépense, dono/obbligo nei confronti delle masse popolari e delle comunità urbane, come avveniva negli spettacoli gladiatorii dell’antica Roma finanziati dalle famiglie patrizie e non a caso chiamati munera. Per alcuni critici addirittura manifestazione patologica, come simboleggiato dal “ricchi scemi” con cui lo storico presidente del Coni Giulio Onesti bollò alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso la categoria.

La grande novità della Serie A dell’ultimo decennio è la sua progressiva trasformazione in settore industriale autonomo, sempre più retto da logiche finanziarie e dall’innesto con capitali e proprietà straniere. C’è un tratto che però non è stato riconosciuto a sufficienza. Così come esistono vari modelli di capitalismo rispondenti a specifiche diversità nazionali e istituzionali, anche nel calcio accade lo stesso. Per esempio la non linearità e i tanti conflitti nell’applicazione delle norme Uefa sul Fair play finanziario derivano dall’esistenza di modelli di capitalismo calcistico differenti come quelli riconducibili alle sovranità energetiche delle famiglie reali del Golfo Persico o quelli rispondenti alle metriche dello sport business improntate ai dettami del pragmatismo americano. La Serie A italiana da questo punto di vista è un terreno interessante perché composto da un mix di modelli imprenditoriali, in un’eterogeneità unica nel panorama delle grandi leghe europee. Proviamo a schizzare qualche traccia, premettendo che si tratta di un “serio gioco” fatto di spunti che meriterebbero analisi più approfondite e magari lavori di ricerca dedicati da parte delle nostre università. Per ragioni di spazio abbiamo individuato cinque modelli. 

Il primo è quello della Juventus, che potremmo definire un capitalismo calcistico di tradizione. Il saggio "Juventus. Storia di una passione italiana” (Utet) che due storici di rango come Aldo Agosti e Giovanni De Luna hanno dedicato alla storia del club bianconero (uno dei primi tentativi di sottrarre l’analisi della storia di un club alla memorialistica giornalistica per trattarla con metodi storiografici seri) illustra con grande chiarezza come, nonostante le profonde diversità economiche tra il calcio-business dei diritti televisivi sviluppatosi dalla metà degli anni Novanta e il calcio basato sugli incassi da botteghino del secolo precedente, nella continuità proprietaria della famiglia più importante del capitalismo italiano non sia mai mutato un assunto di fondo richiamato all’inizio di questo articolo (nel gergo delle scienze sociali la si chiamerebbe path-dependency): l’ancoraggio a un elemento identitario e antropologico come il vincolo familiare, sviluppatosi nel caso della Juventus nella definizione di un’autonomia gestionale sì improntata all’equilibrio finanziario e all’autofinanziamento, ma con la proprietà sempre pronta a intervenire con massicce ricapitalizzazioni in presenza di shock finanziari endogeni o esogeni, dalla retrocessione in B alla pandemia. 

Il secondo modello è quello del Milan, club che più di ogni altro club incarna nella sua figurazione attuale il capitalismo finanziario americano nella sua versione sportiva, filosofia gestionale già da tempo presente in molti club della Premier League, e non a caso la storia professionale dell’attuale amministratore delegato rossonero Ivan Gazidis, sviluppatasi tra la guida della Major League Soccer e dell’Arsenal, riassume e simboleggia questa dimensione. La creazione di valore per gli azionisti è l’obiettivo principale, i risultati agonistici sono importanti se asserviti e utili a questo fine, ma la pericolosità e spesso l’anti-economicità della “bestia” dello spirito agonistico e dell’ossessione di vittoria vanno sempre disinnescate attraverso limiti finanziari ben precisi, da seguirsi con grande rigore e controllo. Nelle interviste a Paolo Scaroni, attuale presidente rossonero ed esperto navigatore degli ambienti del capitalismo finanziario angloamericano, la vittoria non è mai il centro focale delle sue argomentazioni, al contrario dell’esigenza di far crescere il fatturato bilanciando i costi di gestione.

Il terzo modello è quello dell’Inter, ibrido sospeso tra la figurazione calcistica del capitalismo politico cinese e un possibile approdo al modello angloamericano di capitalismo finanziario sulla scia di quanto già avvenuto negli scorsi anni al Milan. L’Inter dal 2016 a oggi è al centro del complesso e particolare legame tra Stato, Partito e grandi aziende private (spesso sviluppatesi dal nulla e poi divenute influenti, come nel caso del gruppo Suning) che definisce il modello del capitalismo politico cinese, la cui particolarità è che la politica, quindi il Partito, dispone sempre delle leve decisionali di ultima istanza, sia rispetto alla singola azienda, sia rispetto ai settori industriali nel loro complesso, come nella decisione di modificare le strategie sugli investimenti esteri che ha avuto forte impatto sugli investimenti cinesi nel calcio. Il tratto caratteristico di questo modello è l’opacità. Mentre è facile comprendere le ragioni sentimentali e dinastiche della famiglia Agnelli o quelle finanziarie della famiglia Singer, è quasi impossibile cogliere a fondo i motivi dell’investimento calcistico della famiglia Zhang: un tentativo di aggredire il mercato più grande del mondo, cioè quello europeo, per espandere la propria rete commerciale? Un modo per esportare capitali all’estero e metterli al riparo di confische e condanne? Una smisurata volontà di potenza familiare? Oppure uno strumento del potere statale per accrescere i piani calcistici di Xi (noto simpatizzante interista sin dai tempi della tournée nerazzurra in Cina del 1978)? La stessa opacità non consente oggi di comprendere a fondo le ragioni del rapido disinvestimento.

Il quarto caso è quello del Napoli, che esprime un modello di capitalismo calcistico che si potrebbe definire dell’eccezionalità, in parallelo con la diversità di una città in cui la modernizzazione economica ha sempre preso forma con accomodamenti propri e unici, senza discipline e razionalizzazioni “nordiche”. Tradotto in chiave calcistica, il Napoli non persegue nessuna delle strategie di creazione del valore raccomandate dai manuali e dai corsi di laurea dello sport-business internazionale: non dispone di uno stadio di proprietà e non ha in cantiere la costruzione di un nuovo stadio, non dispone di un centro di allenamento di proprietà, non dispone di una media-house strutturata rivolta con progettualità sofisticate all’engagement della propria fanbase globale, ha una pianta organica molto limitata e prevalentemente concentrata nella parte sportiva; la cartellonistica dello Stadio San Paolo se confrontata a quella delle grandi squadre di Premier League, sembra più materia da etnologi che da esperti di marketing sportivo. Eppure il Napoli è il club italiano che negli ultimi quindici anni ha creato più valore per il proprio azionista (vendere dopo la vittoria di un trofeo sarebbe il grande trionfo economico di De Laurentiis), non ha debiti, mantiene da più di un decennio una forte competitività sportiva, e il particolare legame tra calciatori e comunità partenopea (il caso di Dries Mertens è davvero degno di un corso di antropologia culturale, ma si potrebbe dire lo stesso di Koulibaly) è un carburante agonistico fondamentale, che attraverso i risultati sportivi produce anche effetti economici positivi. Un aspetto viene spesso sottovalutato: la scaltrezza di De Laurentiis, derivante dalla sua esperienza cinematografica e dalla ruvida dimestichezza nelle trattative con gli attori e loro agenti, nell’affrontare le tante complessità antropologiche di un settore come quello del calcio professionistico con dinamiche contrattuali particolari e molto simili.

Il quinto e ultimo caso è quello dell’Atalanta, versione calcistica del capitalismo delle “multinazionali tascabili”, espressione che indica il percorso delle aziende manifatturiere italiane a trazione familiare che negli ultimi vent’anni sono cresciute di dimensione, fino a diventare leader mondiali in settori di nicchia, aziende di cui il territorio bergamasco è peraltro molto ricco e che in molti casi sono partner del club orobico. Nella capacità di crescere in maniera graduale da una base provinciale per poi inserirsi nelle catene del valore globale, il percorso calcistico dell’Atalanta risponde a pieno alla definizione. Per la filosofia gestionale che incarna, fatta di conservazione di una propria specificità territoriale, forti legami comunitari e investimenti costanti sulle strutture e sul settore giovanile, l’Atalanta dovrebbe giocare in Bundesliga e non in Serie A.

Considerazione finale. Nonostante questo esercizio sui modelli di capitalismo, il calcio non è così importante economicamente rispetto a quanto lo è antropologicamente, inteso come valore sociale della sua presenza rituale. Contrariamente alla retorica di "industria tra le più importanti del Paese", "motore del Pil", il calcio italiano nel suo insieme vale 4 miliardi l’anno, più o meno quanto l'editoria libraria, meno dell’industria dei macchinari per il packaging, che nel 2019 ha raggiunto quota 8 miliardi esprimendo una leadership globale, dell’industria del vino che vale 11 miliardi o del "settore" droghe, che secondo le stime dell’Istat vale 13 miliardi. L'Eni da sola ha fatturato 27 miliardi nel 2020, nessun club di calcio nel nostro paese ha mai varcato la soglia dei 600 milioni. Il calcio non è un settore industriale così strategico. Non vuol dire che non sia economicamente rilevante, sia chiaro, ma non è in termini economici che si misura il suo vero potere. 
 

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