In cerca di rivalsa. Berrettini e gli altri

Enrico Veronese

Dopo la sconfitta a Wimbledon, il tennista romano torna a sfidare Novak Djokovic agli US Open. Un'occasione per una rivincita, ispirata da chi ce l'ha fatta, dalle ragazze del volley al Milan di Ancelotti

I sorteggi dei tabelloni sportivi, da che mondo è mondo, non parlano solo al futuro, ma anche al passato. Niente è più emozionante di una storia che si ripete, di un finale da riscrivere, di un nuovo capitolo della saga tra due rivali che magari manco si detestano, ma certamente provano a superarsi. Chissà cosa c’è nei pensieri di Matteo Berrettini, ad esempio, che la prossima notte a Flushing Meadows si ritroverà davanti Novak Djoković, numero uno al mondo e vincitore nella finale di Wimbledon contro il tennista romano. Quel pomeriggio, correva l’11 luglio, l’Italia intera pregustava la finale degli Europei di calcio contro l’Inghilterra a Wembley, non troppo distante dal prato dove l’azzurro sognava di coronare uno splendido percorso affrontando l’ostacolo più grande.

Allora, Berrettini sapeva, in cuor suo, che sarebbe stata come una missione impossibile, ma l’aveva interpretata nel giusto modo: non pensandoci e giocando con naturalezza. Circostanza che gli aveva permesso di incamerare il primo set, al tie break, prima di cedere onorevolmente nei successivi. Per Djoković, questo duello non cova ancora l’appeal che gli può dare una sfida contro Federer e Nadal; gli occhi di Berrettini si troveranno invece davanti i flash delle bordate serbe sull’erba londinese. Non è dato sapere se la scorsa notte Berrettini abbia dormito serenamente o meno, ma è certo che per lui affrontare colui che - legittimamente e con merito - gli strappò il più grande sogno dalle mani non può valere, già ora, come un incontro qualsiasi. “Provaci ancora, Matteo” è il titolo del film che precede la gara, tra la consapevolezza di essere ancora inferiore a un mostro sacro da rispettare, e la necessità di coltivare la speranza di sovvertire un esito già scritto.

 

In fondo, le Olimpiadi stanno a dimostrare proprio questo, e la lista di coloro a cui chiedere lumi, nei paraggi di casa, fortunatamente si è fatta molto lunga. Come la selezione del volley femminile, che proprio in Serbia sabato scorso ha conquistato il campionato europeo sconfiggendo in finale le padrone di casa, dopo che queste ultime hanno spazzato via da Tokyo le azzurre con un netto 3-0: emblematiche le stories instagram delle atlete di Mazzanti, fiere di essersi spazzate via tante accuse (diciamo così) in così poco tempo. La storia, del resto, è prodiga di episodi del genere: chissà cosa è comparso nella mente dei milanisti e dei giocatori del Liverpool, nella primavera del 2007, quando i risultati eliminatori hanno consegnato loro la finale della Champions League ad Atene, due anni dopo il rocambolesco finale di Istanbul. Molti dei protagonisti erano gli stessi, forse le suggestioni spaziali differenti tra i due stadi hanno solo potuto attutire l’impatto nella memoria, lo choc per gli uni e l’esaltazione per gli altri. Per la cronaca, andò a finire diversamente grazie a Filippo Inzaghi: così, l’ingombro e il rovello di 24 mesi si sono dissolti da una parte, per tornare invece a popolare gli incubi dall’altra. Che dire di Michel Platini e del suo carré magique di centrocampo, nella meravigliosa nazionale francese degli anni Ottanta, capace di vincere un titolo europeo senza raggiungere la finale dei mondiali? Fu sempre la Germania la sua carnefice, riaprendo le vecchie ferite di guerra nella semifinale thrilling di Siviglia ‘82 (da 3-1 a 3-3, poi sconfitta ai rigori) e in quella messicana, nettamente per 2-0, quattro anni più tardi.

 

Anche la storia del calcio italiano è ricca di rivalità dispari, di tentativi d’assalto al cielo sempre frustrati: la Roma che nel 2008 e nel 2010 sfiora lo scudetto e si arrende all’ultima giornata a un’Inter sempre capolista, il Napoli di Sarri che minaccia ma non raggiunge la Juve. Le statistiche dei grandi numeri dicono che prima o poi gli underdog possono rimontare: ai Lakers di Los Angeles occorsero vent’anni, tra i Sessanta e gli Ottanta, per liberarsi (e mai del tutto) del peso di Boston. Ma se uno nasce eterno secondo, come Poulidor contro Anquetil, come Zabel contro Cipollini, occorre sperare che l’antagonista sia in giornata no. Altrimenti non resta che applaudire e farsi amare lo stesso, raccogliendo più o meno ricche briciole e sospirando il fato dei ricorsi storici per poter avere una seconda, una terza, un’ennesima chance: fosse anche l’ultima, per ribaltare la trama del romanzo.

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