Come siamo bravi a vincere, noi, anche quando corre uno solo

Antonio Gurrado

 Amanti dei lustrini ma refrattari al sacrificio, non ci par vero di poter appropriarci dei risultati di chi ha lavorato ogni giorno al buio per ottenerli

Premessa autobiografica fastidiosa ma necessaria: da ragazzino volevo fare il giornalista sportivo. Mi aveva ispirato un articolo di Gianni Brera del 1969 che avevo letto riprodotto in un’antologia: iniziava argomentando che la frase “adesso che siamo andati sulla luna” equivaleva grossomodo a dire “adesso che abbiamo scritto la Sesta sinfonia, detta Pastorale”. Mi è tornato in mente negli ultimi trionfali giorni delle Olimpiadi, tutto un fiorire di “siamo forti”, “corriamo velocissimo”, “saltiamo altissimo”, “vinciamo tutto”. Fossi stato giornalista sportivo, avrei potuto scrivere che equivaleva a dire “abbiamo affrescato la Cappella degli Scrovegni, scritto l’Orlando Furioso e anche inventato il telefono”.

 
Si tratta di uno degli “effetti curiosamente allucinatori” di cui scriveva Giorgio Manganelli nel “Lunario dell’orfano sannita”, riferendosi alla circostanza in cui “la repubblica italiana trascorse giorni di delirio collettivo, dovuto al fatto che una squadra che si era scelto il nome Italia aveva sconfitto altre squadre i cui nomi erano stati tratti dall’Almanacco De Agostini”. Dalla “coincidenza onomastica” si passava alla “communication mystique”, seguitava Manganelli, ma tutto nell’ambito della “allucinazione patente”.

 
Quest’estate l’identificazione mistica ha attinto vette inesplorate che sono sfociate nel paradosso, se non nel controsenso, in occasione del fatale primo agosto, ormai nuovo quattro novembre. La Gazzetta commentava le vittorie di Jacobs e Tamberi parlando di “successi nel segno del noi” e di Italia imbattibile quando fa squadra: beninteso, per due discipline che più individuali non si può, l’uomo solo contro la corsia e l’uomo solo contro l’asticella, ai quali la nazione è stata lestissima a scippare scaglia per scaglia le medaglie d’oro, trasformandole in bene demaniale tramite esproprio proletario.

  
Non è solo la tendenza italiana a volare in soccorso del vincitore. E’ proprio che abbiamo un problema con l’individualità, con l’azione personale, con chi ha fatto cosa – come dimostra il fatto che l’aforisma qui sopra viene attribuito a Longanesi confondendolo con Flaiano e a Flaiano dimenticando che stava citando Bruno Barilli. Amanti dei lustrini ma refrattari al sacrificio quotidiano, non ci par vero poter appropriarci dei risultati di chi ha lavorato ogni giorno al buio per ottenerli; troppo abituati a cercare negli altri giustificazione alle nostre mancanze, per noi è un attimo passare dal “fanno tutti così” a “siamo tutti vincitori”.

   
Da noi Margaret Thatcher sarebbe stata linciata per un’ovvietà come “there is no such thing as society”. Eppure non c’è società neanche nello sport, che si tratti di atletica, arti marziali, bicicletta o navigazione; non c’è carattere nazionale che trasformi un’impresa individuale in collettiva. Abbracciare sconosciuti al bar dopo la finale dei 100 o rotolarci sul divano impazziti per la staffetta non ci ha resi una nazione di atleti più di quanto il Nobel a Carlo Rubbia non ci abbia resi fisici delle particelle. Si tratta sempre e solo di singoli individui, talora riuniti in squadre, che grazie al lavoro su di sé riescono a ottenere soddisfazioni personali, indipendentemente dai milioni di persone che li circondano, spesso nonostante.

   
Alla fine le Olimpiadi certificano una più generale legge della vita. C’è una piccolissima percentuale, statisticamente irrilevante, di persone che diventano qualcuno perché hanno il talento, la tenacia e la fortuna di perseguire ossessivamente vocazione e desideri realizzandoli con successo. E poi ci siamo noi, stragrande maggioranza e massa damnationis, che per pigrizia, tristezza o malasorte a un certo punto abbiamo scelto la strada della sicurezza o dei compromessi. Quanto a me, ad esempio, non sono mai diventato giornalista sportivo e da vent’anni mi son messo a fare altro masticando amaro e tirando avanti. Ma adesso che abbiamo scritto quest’articolo ci sentiamo molto meglio.
 

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