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Il foglio sportivo

Il baseball Usa ha trovato il suo fenomeno

Roberto Gotta

Chi è il giapponese Shohei Othani, il giocatore che sta frantumando un record dopo l’altro

La fenomenologia di Shohei Ohtani è una disciplina inesatta, incompleta, incompiuta. Per forza: l’oggetto di cui si occupa cambia forma ogni giorno, toglie e aggiunge, taglia nuovi traguardi e fa finire nel cestino tutto quanto scritto fino a un attimo prima. Una serie di mutazioni genetiche e generiche che fanno parlare i profani e impazzire gli esperti, una serie di primati che si rincorrono e scavalcano. L’ultimo? Ohtani, 26 anni, martedì sera è stato il primo giocatore negli 88 anni di storia dell’All-Star Game del baseball a essere titolare sia come lanciatore, quindi il difensore principale, sia come battitore, quindi l’attaccante per definizione. Il bello è che nessuno si è sorpreso né di questo nuovo traguardo né del fatto che Ohtani, pur giocando solo un inning, sia stato il lanciatore vincente – esito statistico, non soggettivo – e abbia effettuato un lancio a oltre 160 chilometri all’ora. È stato l’ennesimo gradino aggiunto alla scala di distanziamento tra questo ragazzone giapponese di 1.91 dei Los Angeles Angels e il resto dei giocatori della MLB, anche quelli che – come il duo di figli d’arte che ha ‘Jr’ posposto al cognome, Guerrero e Tatìs – stanno sparando fuoricampo una partita sì e l’altra quasi. 

 

Ohtani è un fenomeno nel senso proprio del termine, da qui la disciplina che lo dovrebbe studiare. È un’epifania, un’apparizione che annoda e stravolge il tempo: è in contemporanea un giocatore del futuro, del presente e del passato, per il doppio ruolo interpretato con magnificenza mai vista prima a questi livelli e con questi effetti. Un passato che sta sfidando giorno dopo giorno, compilazione statistica dopo compilazione statistica, da far girare la testa. Lo scorso 28 giugno, ad esempio, ha sparato il suo 25° fuoricampo stagionale, niente di che se si pensa che prima di lui era accaduto 2.522 volte: ma i giocatori protagonisti della medesima impresa erano riusciti, da lanciatori e non battitori, a produrre un totale di 41 strikeout, cioè eliminazioni di battitori avversari, e 36 di quelli erano venuti dal leggendario Babe Ruth, cento anni fa. Bene, Ohtani di strikeout ne aveva 81 già quel 28 giugno, dunque quasi il doppio in tre mesi di campionato di quelli che The Babe ottenne in oltre 20 stagioni. E alla sosta per l’All-Star Game era l’unico giocatore nella storia ad avere almeno 30 fuoricampo (33, per la precisione) e 12 basi rubate, combinazione tremenda perché riflette potenza e velocità, due doti raramente abbinate, che nel suo caso sono unite alla sua eccellenza nel fare anche altro, cioè il lanciatore, mestiere principale che di pregi ne richiede altri ancora. A un certo punto della stagione, erano suoi sia il lancio (150 chilometri all’ora) sia la battuta più veloci (180) della MLB, e anche questa è un’altra tacca da aggiungere al mito in formazione, un mito che è quasi difficile da spiegare a chi non conosca il baseball se non ricorrendo a un esempio fin troppo banale: è come se Gigio Donnarumma per tutta una stagione giocasse portiere solo una partita su quattro, meritandosi sempre voti altissimi, e nelle altre tre fosse il capocannoniere e il miglior assist-man della squadra. Il tutto, al quarto anno di Ohtani nel campionato americano: nel primo, 2018, era stato votato come Miglior Esordiente ma nel 2019 aveva giocato solo come battitore, convalescente dall’intervento chirurgico classico dei pitcher, quello chiamato Tommy John, con sostituzione di un legamento del gomito con un tendine preso dalla coscia o da un donatore. Molti giocatori – dando finalmente un senso compiuto all’orrido cliché “tornerò più forte di prima” – dopo il Tommy John migliorano ed è stato anche il caso di Ohtani, che nemmeno ne aveva bisogno, anche se lo scorso anno ha poi accusato qualche problema e giocato 43 partite sulle 60 della stagione accorciata per la pandemia. 

 

Quest’anno l’esplosione, con l’unico rammarico di una squadra troppo debole per fare i playoff. Nessuno tiene il passo di Ohtani, per il quale è stato fin troppo agevole coniare lo slogan Sho-Time: la sua corsa è verso limiti mai toccati negli ultimi cento anni, in uno sport che mescola le statistiche e la sporcizia della terra rossa, l’intelletto con l’afrore del cuoio, del legno delle mazze, del tabacco che per decenni è stato, prima del divieto, masticato e sputato da giocatori e allenatori. Un noto commentatore americano è addirittura preoccupato che l’opinione pubblica non riesca ad apprezzare quanto Ohtani sta facendo, perché troppo fuori dai parametri in uso da alcuni decenni: sfugge, come si dice, alle categorizzazioni, persino in uno sport ridondante di numeri come il baseball. 

 

 

Ohtani del resto è solo al comando perché fin da ragazzino ha creduto che l’avversario più difficile da superare fosse quello che vedeva riflesso nello specchio: se stesso. Al netto dei cliché, che sia in Usa sia in Giappone abbondano con i loro slogan pietosi sull’inevitabilità del successo per chi lavora più sodo degli altri, Shohei è un esempio allucinante di applicazione, già dai tempi in cui al liceo Hanamaki Higashi nella prefettura (regione) di Iwate, nel nord del paese, terrorizzava da battitore i lanciatori avversari, e da lanciatore i battitori. Nella finale del campionato scolastico del 2012 un suo lancio venne misurato a 160 chilometri all’ora, ma già gli osservatori americani lo seguivano, avendo sentito della sua volontà di passare alla MLB addirittura senza misurarsi nel pur ottimo e seguitissimo campionato professionistico locale. I Nippon Ham Fighters lo convinsero però a firmare con loro, per permettergli di crescere un po’ alla volta, e Shohei migliorò su due fronti: quello collettivo, contribuendo al titolo del 2016, e quello personale, con una serie di premi e riconoscimenti individuali. Nati, tutti, dall’applicazione pratica di antiche mentalità giapponesi e del cosiddetto Metodo Harada, dal nome del suo ideatore Takashi Harada, professore di scuola media che lo ha insegnato a decine di migliaia di persone e aziende. La crescita individuale, secondo questa impostazione, passa per l’hitozukuri, il processo di formazione di ogni persona, che deve conferire onore e orgoglio a qualsiasi attività, ponendosi piccoli obiettivi che poco alla volta si sommano. Ohtani individuò otto elementi sui quali lavorare, dalla preparazione fisica a dettagli apparentemente insignificanti: era convinto che leggere più libri, mettere in ordine la sua stanza e raccogliere qualsiasi cartaccia vedesse sul marciapiede avrebbe contribuito, a lungo termine, anche alla sua crescita professionale. Una sorta di educazione olistica che sembra fatta apposta per cadere in uno stereotipo nipponico di educazione, civiltà e impegno strenuo, evidenziati anche da caratteristiche classiche del baseball locale: per tanti anni, ad esempio, per insegnare ai catcher (ricevitori) la posa accucciata perfetta c’era chi poneva per terra a pochi centimetri dal loro fondoschiena un’asse chiodata, casomai avessero la tentazione di rilassarsi, mentre una delle tecniche di allenamento del grande Sadaharu Oh, ora 81 anni, primatista mondiale di tutti i tempi dei fuoricampo con 868, era affettare con una spada da samurai fogli di carta appesi a un cordino. Oh firmava (e firma) gli autografi aggiungendo la parola doryoku, che vuol dire “impegno”, e nessun atleta giapponese può prescinderne: il che si traduceva storicamente anche in cinque ore di allenamento mattutino nei giorni di partite serali, e molti ricordano ancora con ammirazione le 900 palline che nel 1984 il 38enne Koichi Tabuchi cercò di raccogliere al volo come appendice personale di un lunghissimo allenamento. La sessione difensiva supplementare durò due ore e 50 minuti e al termine Tabuchi crollò esausto ma orgoglioso di aver completato uno dei tanti gattsu, esercizi che mettono alla prova la resistenza psicologica e fisica dei giocatori. Aneddoti raccontati in You gotta have wa (Serve armonia), straordinario libro in cui Robert Whiting racconta e spiega il baseball giapponese: wa è tra l’altro una voluta contrapposizione alla mentalità individuale e individualistica attribuita – non a torto – agli sportivi americani, molti dei quali, in Giappone, hanno faticato tantissimo ad adattarsi a una mentalità così diversa. C’è anche un film chiamato Mr.Baseball, con Tom Selleck, che aiuta a capire il divario culturale e però anche a farci comprendere l’eccezionalità di un Ohtani che sul campionato MLB è piombato come un alieno, dopo il corteggiamento di tutte le squadre, dalle quali assieme al suo agente aveva estratto le sette a suo avviso più adatte. Gli Angels avevano dedicato due ore e mezzo alla propria presentazione, e Shohei li aveva scelti non per l’offerta economica, per la collocazione in California – anche se un fuso orario più favorevole per la visione televisiva in Giappone aveva un certo peso – o per i colori, ma per la pignoleria con la quale lo staff tecnico aveva messo assieme un video in cui venivano spiegati i margini di crescita del ragazzo. Un delicato, gradito equilibrio tra rispetto del talento di Ohtani e al tempo stesso della sua volontà di migliorare, di applicare il doryoku sul suolo americano. Con i risultati strabilianti che si vedono. E sentono: in occasione di uno dei suoi fuoricampo, quest’anno, la rete ESPN è stata accusata di aver appositamente alzato il volume per far risaltare il crack netto, sonoro, meraviglioso dell’impatto tra palla e mazza, ma si è presto capito che non c’era stato alcun sotterfugio. Shohei aveva colpito con una pulizia e una precisione tali da estrarre dal legno il suono perfetto. E che dire dell’angolo di traiettoria dei fuoricampo stessi? Si calcola che per andare oltre la recinzione una palla debba uscire dal contatto con la mazza con un’angolazione tra i 15° e i 20°, e molti home run in effetti hanno una traiettoria abbastanza poco arcuata, ma in alcuni degli oltre 30 battuti quest’anno Shohei ha superato i 30°. Ovvero, una potenza tale da sconfiggere anche la forza di gravità, battute lunghe e alte, altra roba mai vista in assoluto, e ancor più se si pensa – di nuovo – che parliamo di uno che non fa solo il battitore ma anche il lanciatore, ruolo che da solo richiede parecchi anni di formazione, di perfezionamento, di studio. Shohei è l’unico che riesce non solo a coprire entrambi i compiti ma a farlo come nessuno negli ultimi cento anni e l’ammirazione dei colleghi americani è enorme, sia per le sue doti sia per il suo atteggiamento: un attimo prima di iniziare l’All-Star Game, martedì, ha salutato la panchina avversaria con un gesto cordiale e semplice, ma che nessuno aveva mai fatto. Che ci sia una “Ohtani Cam” per la tv giapponese, cioé una telecamera che in molte partite inquadra solo lui, è dunque il minimo, anche se per assurdo c’è poco da vedere se non la banalità del bene: non fosse per la muscolatura notevole che ha messo su nel suo periodo americano, Shohei potrebbe essere un giapponese come tanti, con una pettinatura banale, un sorriso costante, nessun tatuaggi, niente gioielleria truzza che invece va molto di moda nelle squadre e quell’apparente imbarazzo che emerge, ad esempio, nel video in cui cerca di cantare Despacito. Eppure, anche lì sembra che sia meglio degli altri.

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