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Il Foglio sportivo

La sharing economy del calcio

Alessandro F. Giudice

Il paradosso di un mercato in crescita nel quale il valore dei calciatori tende sempre più a zero

Nel calciomercato in tempi di Covid il Barcellona che regala il cartellino a Pjanic, lasciandolo libero di trovarsi un’altra squadra per risparmiare 7 milioni di stipendio, non è un rumour come tanti ma segnala la transizione a un modello di gestione dei club in cui il valore dei calciatori tende a zero. Il centrocampista bosniaco passò ai blaugrana un anno fa, in un controverso scambio con Arthur con passaggio di denaro esiguo (9 milioni da Juve a Barça) perché a Pjanic fu assegnato un valore di 63 milioni contro 72 attribuiti al brasiliano, in un reciproco omaggio di plusvalenze. Secondo la prassi contabile adottata da molti club, il costo di un giocatore viene capitalizzato tra le immobilizzazioni immateriali e ammortizzato (cioè spesato) in quote di ammortamento costanti per gli anni di durata del contratto. Tecnicamente, un calciatore entra a bilancio sotto forma del diritto a fruire delle sue prestazioni che la società esercita in forza del contratto finché questo è valido. L’ammortamento è un costo annuo che concorre alla formazione della perdita di esercizio per alcuni anni, mentre il valore netto contabile del cartellino (cioè la differenza tra il costo originario sostenuto per acquisirlo e le quote di ammortamento determinate negli anni) costituiva in passato una barriera invalicabile alla cessione poiché nessuno gradiva incorrere in perdite. La minusvalenza era una sentenza senza appello: certificava un acquisto sbagliato che si preferiva trascinare negli anni con prestiti (anche gratuiti) per allontanare la perdita nel tempo. Oppure con cessioni incrociate senza passaggio di denaro.

Da quando il palcoscenico del football si è globalizzato, aprendo mercati inesplorati e conquistando consumatori in ogni angolo del pianeta, il paradigma economico è stato chiaro: acquistare calciatori, strapparli alla concorrenza per essere competitivi ma anche per sfruttare il trend di crescita nei valori di mercato, così da guadagnare plusvalenze nel futuro. Poiché la marea che sale riporta a galla pure le barche in secca, anche operazioni di mercato fallimentari beneficiavano della crescita generalizzata.

Ogni azienda persegue la sua missione utilizzando risorse fisse: materiali o immateriali. Le materiali sono tipicamente impianti, macchinari e fabbricati. Le immateriali sono marchi, brevetti, licenze o altre risorse intangibili. Certe immateriali non vanno neppure iscritte in bilancio se l’azienda non ha pagato un prezzo esplicito per acquisirle: l’esperienza, la qualità del management, la lealtà dei dipendenti, la reputazione o altro. Un’azienda dispone poi di risorse non fisse come il cosiddetto capitale circolante netto, cioè i crediti da incassare dai clienti e le giacenze di magazzino, meno i debiti verso fornitori per gli acquisti di merci o servizi. Tutte insieme, queste risorse (asset) formano il capitale immobilizzato nell’azienda che azionisti e finanziatori esterni (banche, obbligazionisti) finanziano coi loro capitali in cambio di un rendimento: utili o interessi. In un club, la risorsa materiale più importante è lo stadio, ma pochissimi in Italia ne hanno acquisito la proprietà. Il grosso del capitale si concentra perciò nella rosa dei calciatori: il diritto alle loro prestazioni incorporato nel cartellino è risorsa immateriale. Nei decenni della crescita la strategia da seguire era acquistare calciatori, aspettandone l’inevitabile aumento del prezzo. Il giocatore vicino alla scadenza andava blandito per convincerlo a rinnovare, assecondandone le richieste salariali pur di preservarne il valore del cartellino e guadagnare dalla vendita futura. Era, dunque, concentrato soprattutto in beni immateriali il valore economico delle società che il crollo dei prezzi e la rarefazione degli scambi rendono oggi più teorico che monetario. Qual è il senso di rinnovare contratti a condizioni insostenibili non essendo più l’ammortamento, bensì l’esborso regolare di cassa, l’onere più gravoso a cui il club resta vincolato per anni dal contratto? In un mercato dove la liquidità è diventata merce rara, cash is king. Se il Milan preferisce perdere a zero Donnarumma e Calhanoglu per non sottostare a richieste economiche ritenute eccessive, l’Inter è da mesi in stallo nel rinnovo di Lautaro in scadenza nel 2023. Da oltre un anno la Juve non trova l’accordo con Dybala e il Napoli è bloccato con Insigne. Lo stesso Barça famoso per acquisti mostruosi (Coutinho 120 miioni, Dembelè 150) prende Aguero e Depaay a zero mentre accetta una grossa minusvalenza su Pjanic pur di arginare l’emorragia di cassa. Intanto, lascia il contratto di Messi scaduto da quindici giorni: anni fa sarebbe stato inconcepibile.

Finanziare i cartellini col debito, scommettendo sulla crescita, non pare una buona idea se il diritto d’uso temporaneo delle prestazioni di un atleta vale più della proprietà pluriennale. Il cartellino è un investimento a perdere, tanto più se gli agenti dei campioni spingono a fine contratto i loro assistiti con la promessa di piazzarli meglio a club desiderosi di utilizzarne le prestazioni senza investire nell’acquisto in proprietà. Qualche procuratore è mosso dal miraggio di laute commissioni che la scandalosa tolleranza regolamentare consente. Questa modalità negoziale deprime ulteriormente i valori rendendoli ancora più deperibili, disincentivando l’investimento in un bene destinato a valere zero in pochi anni. Riduce paradossalmente la mobilità dei calciatori, rendendo il contratto una gabbia per le società. È la sharing economy del calcio: tutti vogliono il possesso, non la proprietà. I manager (prima Gazidis ma ora anche Marotta e Agnelli) parlano di formule “creative” nella formazione delle rose. Non è una buona notizia per gli azionisti perché sgonfierà il valore degli asset ma può giovare a chi disponga di risorse intangibili come brand, community di tifosi, storia, tradizione e forse contribuirà ad allargare la distanza economica tra chi le possiede (i super top club) e chi no.

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