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Euro 2020

Italia-Austria 2-1. La bellezza non basta, ogni tanto serve saper giocare male

Giovanni Battistuzzi

I gol di Chiesa e Pessina concedono agli Azzurri i quarti di finale dopo i supplementari, un primo tempo giocato bene e un secondo dove la Nazionale ha ringraziato i centimetri di troppo delle ginocchia di Arnautovic

Per una decina di minuti nel primo tempo degli ottavi di finale di Euro 2020 tutto era sembrato molto semplice. L’Italia attaccava, l’Austria si difendeva, si dannava a rincorrere palla e avversari. Questione di tempo, prima o poi il gioco avrebbe steso i polmoni e muscoli. Convinzione invecchiata, ancora di moda, probabilmente infondata. Perché gli austriaci hanno continuato a correre, mentre l’Italia ha a un certo punto smesso di fare gioco. L’aveva già detto Ray Wilkins negli anni Ottanta: “In Serie A le partite durano settanta minuti, poi non si corre più si fa accademia”. Non è cambiato poi molto. Il calcio si è globalizzato solo fino a un certo punto.

Roberto Mancini ha idee internazionali, ha insegnato ai suoi uomini a essere belli e pragmatici, a vincere con la grazia. L’Austria però non è però una passerella, non è la Turchia contro la quale è bastato il tempo. È una squadra solida e rognosa, contro la quale serve saper giocare male. La vecchia lezione del Paron Rocco: “Mena mona e vai, il resto no xé importante”.

L’Italia non l’ha capito per novanta minuti. Ha benedetto i centimetri di troppo delle ginocchia di Arnautovic, quelli che hanno graziato gli Azzurri nell’azione del gol annullato per fuorigioco. Quando l’ha compreso, quasi per contrappasso è arrivato il tocco sotto di Leonardo Spinazzola, lo stop e il tiro di giustezza di Federico Chiesa. 1-0.

Per novanta minuti la Nazionale ha funzionato un po’ come una spillata di birra in un biergarten austriaco durante una partita importante. Velocità elevata di discesa nei bicchieri, gran schiuma, cambio continuo dei boccali, attese ricorsive prima di darlo a chi l’aveva ordinato. Solo con un po’ meno di praticità. Tante belle idee, ma sempre qualcosa di troppo, che fosse un passaggio, un dribbling, una sovrapposizione. Un fastidio continuo per Roberto Mancini, il cui ciuffo ballonzolava più del solito, si contorceva, dava segni di insofferenza. Il ct ha fatto di tutto per tenerlo fermo. Autocontrollo e tecniche di respirazione, più qualche ramanzina con Ciro Immobile per provare a ricordargli di non fare troppo di testa sua. Un ciuffo che si è tranquillizzato dopo il vantaggio, nell’abbraccio con Gianluca Vialli, compagno calcistico di una vita. Al raddoppio di Matteo Pessina si è placato, al di là delle ultime urla, quelle buone per dire ai suoi uomini di non fare cavolate.

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D’altra parte il suo l’aveva fatto: aveva sistemato ciò che non funzionava al meglio, aveva inserito la calma geometrica di Manuel Locatelli al posto dell’estro confusionario di Marco Verratti. Aveva inserito Matteo Pessina e Federico Chiesa per dare più velocità. Andrea Belotti per avere solidità in avanti. Locatelli non si è fatto vedere, come al solito, ma ordine in mezzo al campo l’ha fatto. Pessina e Chiesa hanno segnato. Belotti si è preso un sacco di botte, qualcuna l’ha data e ha dato al centrocampista dell’Atalanta il pallone del raddoppio. Quello che serviva.

L’ultima preoccupazione è arrivata a sei minuti dalla fine dei supplementari quando il più alto di tutti, Sasa Kalajdzic ha messo in rete di testa un pallone che gravitava a nemmeno un metro da terra.

L’Italia lascia Wembley sperando di poterci ritornare. Aspetterà a Monaco di Baviera il Belgio o il Portogallo. Ai quarti di finale una vale l’altra, l’avversario non conta, serve vincere.

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