Alberto Malesani nella sua vigna, in una foto tratta dal sito lagiuva.com

Il Foglio sportivo

“L'allenatore bravo non fa danni”. Tra i vigneti di Malesani

Roberto Perrone

Nell’autunno del 2020 ha annunciato che ormai la sua avventura con il calcio si è conclusa. "Amo sperimentare, avevo ancora molto da trasmettere al calcio”. Parla l'allenatore veronese

"Sono in cantina”. E dove, se no? Alberto Malesani, 67 anni il 5 giugno, è il Cincinnato del pallone. Allenatore pirotecnico e immaginifico, diretto e poco restio a perdersi in fronzoli, se n’è andato troppo presto da questa valle di lacrime pallonara. Meglio per lui che ora passa le sue giornate sulle colline della Val Squaranto, a nord-est di Verona, dove ha piantato la sua splendida vigna e ha creato la sua bella e moderna (ma con cuore antico) cantina, “La Giuva Vinery”. “Giu” sta per Giulia e “Va” per Valentina, le due belle e capaci figlie che lavorano con lui. È nonno di Emma, ha il suo storico gruppo di amici con cui passa serate memorabili battendo le grandi trattorie di Verona e del veronese. E io posso produrre testimonianza diretta di quei momenti impareggiabili. “Devi tornare, manchi da troppo tempo: la cantina è diventata proprio bella, abbiamo fatto passi da gigante”. Ecco, prima parliamo di cose serie: “Nel 2020 non ho imbottigliato l’Amarone. Sono le uve del 2018, gli faccio fare un anno di più nel legno”.

L’ultimo domicilio (in panchina) conosciuto di Malesani è stato il Sassuolo, nel 2014. Cinque partite, cinque sconfitte, dopo essere subentrato a Eusebio Di Francesco che poi gli ri-subentrò. Nessuno ci ha fatto caso ma perse dal miglior Verona del decennio (quello dei 20 gol di Toni), da Inter, Napoli e Lazio e infine dal Parma che quell’anno si piazzò sesto, parliamo, cioè, di tutte squadre di classifica superiore. “Quando sono arrivate le partite che dovevamo e potevamo vincere, mi hanno mandato via”. Non fa una grinza.

Nell’autunno del 2020 ha annunciato che ormai la sua avventura con il calcio si è conclusa. “Ci penso poco, al calcio, ormai mi sento più vigneron”. Ogni giorno sale alla sua vigna, trecento metri di altezza. Spesso la mattina presto “anche se non ho un orario fisso, sto qui la mattina e il pomeriggio, mi piace essere l’ultimo che va via alla sera”. La sera, il momento migliore, d’inverno come canta Guccini, “fumano nubi basse”, d’estate il taglio dei raggi del sole è obliquo e misterioso. “Adoro guardare la campagna con un bicchiere in mano, Amarone o Rientro, con un pezzetto di parmigiano e una fetta di salame della Lessinia. Questo è il mio aperitivo solitario con la campagna davanti. È fantastico”. Il Rientro, un Valpolicella Superiore Doc, ha un nome di origine calcistica, un termine importante perché saper “rientrare”, per un giocatore, è segno di intelligenza, vivacità, senso del gruppo. “Però il calcio lo seguo ancora, magari nei momenti più belli, nelle partite di cartello, come quelle europee, la Champions, le grandi sfide. Non è per snobismo, bada, è che non mi arriva più dentro la pancia. Si è abbassata la saracinesca, anche se il calcio mia ha dato tanto, e lo ringrazio. Tra le tante opportunità anche quella di fare l’aperitivo in mezzo alla natura, tra le mie vigne”. Cosa ricordi delle ultime esperienze? “Tutto si dimentica, ma sia a Palermo che a Sassuolo sono stato chiamato a rimediare. E rimediare non era, diciamo, la situazione giusta per me. Io ho sempre amato costruire, programmare. La vuoi sapere una cosa?”. Certo, sono qui per questo. “Sai perché mi è dispiaciuto che sia finita così con il calcio? Perché io ero sempre in fase di sperimentazione, avevo sempre nuovi progetti e mi piaceva completarli, ma con l’ultimo non ci sono riuscito. Sono sempre stato uno che ha avuto sempre la voglia di analizzare tutto, allenavo tra sperimentazioni e risultati. La bellezza del calcio per me era questa, sperimentare e fare risultati. Lo so, non è facile, è stata un po’ la mia pazzia”. 

All’uomo della val Squaranto, al vigneron, manca la realizzazione di quest’ultima follia e la sensazione di “non aver potuto trasmettere tutto quello che avevo dentro”. Spiega. “Si tratta di allenare in una certa maniera e veder poi i frutti del lavoro. Altrimenti diciamo sempre le stesse cose. Io ero appieno in un lavoro sinottico: l’allenatore che vede come vede il calciatore. Sono contrario ai droni, al calcio dalla tribuna, ai video dall’alto. Io pensavo all’allenatore che entra dentro l’occhio del calciatore, io pensavo a questo, a un lavoro particolare, nuovo. Vedo più la telecamera nella testa di un giocatore che un drone sulla sua testa. Ero più avanti della match analysis. Facevo un lavoro di questo tipo. Nei corsi si insegna come allenatore i giocatori ma non come allenare un allenatore. Io sentivo la necessità di abbandonare il lavoro sul sistema di gioco e di farne uno tridimensionale sul giocatore”. Affascinante. Ma Alberto Malesani è sempre stato un tecnico con grandi intuizioni e una sensibilità particolare. Forse troppo sensibile. “Il mio dispiacere è questo, non aver concluso questo progetto. Avevo anche pensato di trasmetterlo ai dilettanti, ai giovani, perché i professionisti sono sordi, pensano di sapere tutto. Ma non era destino. Vabbè, penso di avere ancora tante cose da trasmettere ma ora le trasmetto alle mie vigne”.

Ma non è possibile che dal 2014 non tu non abbia ricevuto neanche una chiamata? “No, certo, qualche panchina me l’hanno offerta, ma l’unica che mi interessava veramente era quella di una Nazionale. Ma non è arrivata, forse non avevo gli agganci giusti per completare il mio percorso, per portare dentro l’ambiente del calcio la mia esperienza. Ecco, purtroppo in Italia pensano che l’esperienza e l’età siano una zavorra. In realtà l’esperienza andrebbe messa a frutto, andrebbe utilizzata, magari per sostenere i giovani. Faccio un esempio. La mia azienda è condotta dalle mie figlie che sono giovani e brave, ma dietro a loro ci sono io. Un bagno nell’esperienza fa sempre bene, non trovi? A livello calcistico gli allenatori dovrebbero essere guidati. Coverciano dovrebbe essere una fucina di allenatori con allenatori di una certa età a insegnare. I maestri non sono solo quelli come Guardiola o altri stranieri, bisognerebbe ricorrere alla sapienza degli italiani”.

Si approssima l’Europeo 2020 che, causa pandemia, è slittato nel 2021. Dicevi delle partite di cartello, quelle belle che ti appassionano. L’Europeo lo guarderai? “Sì, dopo il disastro del 2018 è arrivato un allenatore che vuole vincere e la sua voglia non è da scambiare per arroganza. Mi piace Mancini. Perché sa di avere dei talenti e quando è arrivato ha detto: voglio vincere. Ha impresso un cambio di passo nella mentalità, ha portato dentro all’ambiente le sue convinzioni ed è riuscito a dare fiducia a un gruppo depresso. Non ha raccontato balle, ha puntato sui giovani, perché la Nazionale è espressione del calcio e italiano e quindi è un’espressione di talenti. È importante vincere perché siamo l’Italia, senza prosopopea o lavori strani. Però noi dobbiamo stare tra le prime nazioni. Il merito di Mancini è che dà più fiducia lui ai giovani che le società i club. Credo in lui, mi piace un allenatore di questo tipo”.

Ma tra quelli che stanno in circolazione c’è qualcuno che più di piacerti si avvicina a te? “Più le vigne sono vecchie e più fanno il vino buono, invece qui si pensa che più sei vecchio più fai le cose meno buone”. Tradotto? “Tra gli allenatori mi piace da morire Allegri, perché è pratico, intuitivo e magari, inconsciamente, entra in quel lavoro nella testa dei giocatori di cui ti parlavo. Lui crede di più al giocatore che a tanti discorsi. C’è chi lo ha discusso, sostenendo che non è al passo con in tempi. Invece è avanti, cura l’aspetto visivo dei giocatori, non il suo, così esalta le sue qualità rendendolo felice nel ruolo che gli piace. Tutti pensano che sia facile vincere cinque scudetti alla Juve, ti assicuro che non è facile”. Ora è tornato alla Juventus e quindi lo rivedremo in azione. “Bene. Se credesse un un attimo di più a piccoli aspetti didattici sarebbe l’allenatore perfetto. Lo dico con l’esperienza sul campo: ho incontrato tanti tipi di allenatori nella mia carriera e lui era il più difficile da affrontare”.

Tra i giocatori chi apprezzi? “Donnarumma è forte, in mezzo al campo piace molto Verratti. Ah, e Barella naturalmente. Immobile per me è bravissimo”.

Malesani, l’ultimo ad aver vinto l’Europa League, nell’ultima edizione chiamata Coppa Uefa, anno 1999. “Ti ricordi? Tu c’eri. Quanti viaggi insieme, quanti aeroporti. Sai cosa ricordo io? Che partivamo insieme, squadra, dirigenti, tifosi, giornalisti, tranquilli e sereni, senza grande stress. Affrontavamo gli avversari con la consapevolezza dei nostri mezzi”. Mezzi, che, pare, non abbiamo più, infatti l’Europa League non sono non l’abbiamo mai vinta e in finale c’è arrivata solo l’Inter un anno fa. “Non è strano, innanzitutto bisogna dire che c’è una forte competizione, io, quando ho vinto la Coppa Uefa con il Parma, avevo una squadra forte. Guarda Guardiola quanto ci ha messo per andare in finale. Non è facile essere competitivi in Europa. E molto dipende dai fatturati”. Ah, il fatturato. Pure tu? “Non fare lo spiritoso. La faccenda è seria, noi come fatturati siamo sotto è quello è il primo e più importante aspetto. Il secondo è che in Italia c’è più attenzione a entrare nella Champions che a vincerla. Ed è lo stesso ragionamento che fanno in basso, c’è più tensione a salvarsi che a costruire qualcosa di più. Ma ti sei accorto che quelli che arrivano tra le prime quattro è come se avessero vinto in campionato? Anzi, diciamo che lo scudetto è un accessorio”. Vangelo, è proprio così, purtroppo. “Questa come la chiami? Io dico mentalità al ribasso”. Allora come ne usciamo? “Ci vogliono allenatori bravi a preparare le partite singole, Allegri è uno di questi, infatti è l’unico da più di dieci anni in qua ad aver giocato due finali di Champions. L’allenatore è un manager, ma deve fare anche altro, deve esaltare al massimo le capacità dei giocatori. Comunque dopo tutto quello che abbiamo detto, l’anno prossimo vinciamo Champions ed Europa League e facciamo altri discorsi”. Sì, magari. Però ritornerei sulla faccenda del fatturato. “La storia della squadra al servizio dei giocatori ha fatto il suo tempo. Da Trapattoni a Sacchi, da Capello a Conte, mai avrebbero potuto vincere senza una società all’altezza. Quando Berlusconi è entrato nel calcio, la prima cosa che ha fatto è stata quella di aumentare il fatturato e ha investito nei migliori giocatori, come Donadoni in Italia e Gullit all’estero. Poi tutti gli altri. Bravissimo Sacchi e dopo di lui Capello, ma quello che ha fatto la differenza è stato investire tanti soldi nei migliori giocatori, prendere un buon allenatore e avere nel club un buon gestore come Galliani. E l’operazione è riuscita. Alla fine l’artefice principale è sempre la società. Io ad Agnelli, ad esempio, faccio i complimenti. Tutti lo massacrano, invece io dico che ha ha fatto bene, bisogna investire nel fatturato, questa è la strada da percorrere”.

Però l’allenatore è rilevante, guarda cos’ha fatto Conte con l’Inter in questi due anni. “Conte gli ha fatto fare il cambio di mentalità, gli ha cambiato la testa, ai giocatori, ma non solo a loro. Ha fatto capire a tutti che non basta stare all’Inter per sentirsi realizzati, ma bisogna vincere. Conte è un martello non tanto in campo, ma per come gestisce il cambiamento nella testa”. Già, però ha concluso la sua storia con l’Inter perché c’è un ridimensionamento in atto. “Peccato, perché se continuava così e lo supportavano con gli investimenti poteva avviare un ciclo. Comunque la bacchetta magica non ce l’ha nessuno, l’allenatore è importante ma se riesce nella formazione del giocatore, se sa entrargli nella testa”. Non abbiamo parlato dell’Atalanta. “L’Atalanta sta facendo i miracoli ma un certo punto si ferma. Percassi e Sartori prendono buoni giocatori a meno soldi, questa è la loro bravura”.

Bene, dai, ti lascio andare tra le tue vigne. Però prima fammi una sintesi, un titolo per tutto quello che abbiamo detto: “L’allenatore bravo non fa danni”. A presto, quell’aperitivo con il sole che tramonta, l’Amarone e il salame della Lessinia, mi è entrato nel cuore. “Ti aspetto”. 

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