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La dura vita degli arbitri
"Te lo giuro sui miei figli", dice l'attaccante del Genoa Pandev all'arbitro esordiente Camplone, rivendicando la correttezza della sua giocata. Quante ne sentono, e quante ne vedono: dal tennis al pugilato, fino al rugby, le (dis)avventure dei direttori di gara
Sabato scorso, Genova, Genoa-Udinese. Dopo otto minuti Goran Pandev, macedone rossoblù, riceve il pallone da sinistra, lo controlla, si gira e, di sinistro, lo infila all’angolino fra le gambe del difensore Bram Nuytinck, olandese bianconero, in uno spiraglio fra Juan Musso, il portiere argentino dell’Udinese, e il palo. L’arbitro, Giacomo Camplone, esordiente in serie A, annulla: ritiene che Pandev, per addomesticare il pallone, si sia aiutato con una mano. Pandev gli dichiara: “Non l’ho toccata con la mano, te lo giuro sui miei figli”. E ribadisce: “Te lo giuro sui miei figli”. L’arbitro rivede l’azione alla moviola. E concede il gol. Pandev ha detto la verità. Filippo, 10 anni, e Ana, nove, tirano il fiato e ringraziano il papà.
Quante ne sentono, e quante ne vedono, gli arbitri. Bugie e insulti, sceneggiate e simulazioni. Verbali e gestuali, vocali e labiali. Espressioni di insofferenze, antipatie, allergie, diventate addirittura strumenti e strategie di sudditanza psicologica. Costretti a casa spettatori e tifosi, rimangono sul campo giocatori e dirigenti, e in tribuna giornalisti e osservatori. Le parole rimbombano ed echeggiano negli stadi quasi deserti. I sospetti continuano a serpeggiare e le polemiche a scoppiare. “L’entità del comportamento dell’arbitro di calcio viene messa a repentaglio da due ordini di pressioni – scriveva Mario Soldati -: la violenza psicologica dei giocatori e del pubblico: la possibilità di corruzione”. Ma fino a prova contraria, gli arbitri sono, se non santi, almeno benedetti: senza di loro, non si comincerebbe neanche a giocare.
Anche se nessuno gliel’ha ordinata, è dura la vita degli arbitri. E lo è anche adesso che quasi dovunque c’è un altro arbitro in uno studio, davanti alla tv, collegato via radio e con la possibilità di correggere una decisione sbagliata e rivedere – per direttissima – una sentenza iniqua. Missionario per vocazione e protagonista suo malgrado, da sempre si sostiene che l’arbitro migliore è quello che, nonostante si debba trovare al centro delle azioni, non si nota. “Idealmente – filosofeggiava il “Time” – l’arbitro dovrebbe unire l’integrità della giustizia di una corte suprema, l’agilità fisica di un acrobata, la resistenza di Steve Job e l’imperturbabilità di Buddha”. Ma c’è (c’era, in questo caso) anche chi si accontenta di molto meno. Come Sonny Liston, campione del mondo dei pesi massimi prima di Cassius Clay (e prima che Clay diventasse Muhammad Ali): “Mi basta che sappia contare fino a 10”, il tempo per dichiarare k.o. il suo avversario. Larry Goetz, giudice di baseball, spiegava: “Quando ho ragione, nessuno lo ricorda. Quando ho torto, nessuno lo dimentica”. E il collega Al Norman chiosava: “Qualche volta dai tifosi ricevo biglietti di auguri di compleanno. Ma sempre con lo stesso messaggio: tutti sperano che sia l’ultimo”. John McEnroe non le mandava a dire: a un giudice di linea “ci vedi bene come quei fottuti fiori. E sono di plastica”, a un giudice arbitro “sei una disgrazia per l’umanità”, a uno spettatore “che problemi hai oltre a essere un disoccupato, un deficiente e un idiota?”.
Se ogni partita è una nuova storia per i giocatori, per l’arbitro si traduce in una nuova avventura. Anche nel rugby, che vanta forse il primato del “fair play” nel mondo dello sport. Ieri, Edimburgo, Scozia-Irlanda per il Sei Nazioni. Romain Poite, francese, potrà raccontare di quando, investito e travolto (involontariamente) dal pilone scozzese Willem Nel, è riuscito a rimbalzare e salvare la pelle, o di quando, per verificare l’effettiva realizzazione prima della meta dell’irlandese Tadhg Beirne poi di quella dello scozzese Hamish Watson, non ha esitato a ficcare la testa fra un groviglio di teste, bicipiti e tibie. A volte sono sufficienti le buone, a volte quelle meno. Celebre la presa di posizione di Luigi Agnolin, forse il migliore arbitro nella storia del calcio: autoritario in un derby, quando alle proteste dello juventino Roberto Bettega dopo un gol annullato oppose un netto “vi faccio un culo così” (che negli anni è stato addolcito in “vi faccio un cesto così”), e autorevole in Argentina-Uruguay ai Mondiali del 1986, quando osò annullare un gol a Diego Armando Maradona, che poi ammise “soltanto lui avrebbe potuto farlo”.
Con il pallone ovale i toni sembrano più pacati che in quello sferico. Proprio in Scozia-Irlanda si è visto e ascoltato Poite rivolgersi al capitano irlandese Sexton chiamandolo familiarmente per nome, Johnny. E mai abbastanza apprezzate erano le spiegazioni di Nigel Owens, arbitro gallese, con il record di 100 presenze internazionali, che a Tobias Botes, mediano di mischia del Benetton, che cntinuava a lamentarsi, disse: “Credo che non ci siamo mai incontrati prima, ma l’arbitro sono io, non tu. Tu fai il tuo lavoro, e io faccio il mio. Questo non è il calcio”. L’ultima definizione è diventata virale ed è stata stampata su migliaia di T-shirt, come simbolo, comandamento, bandiera.
Chiamati adesso a decidere non solo sui calciatori ma anche sui loro figli, gli arbitri avrebbero bisogno della collaborazione di psicologi e psicanalisti. O forse, più semplicemente, di Beppe Viola. Come gli piaceva raccontare (e a noi ascoltare) la storia di quel pugile che, dopo averle prese di santa ragione il primo round, si rivolse al suo secondo e gli chiese come andasse. E quello: “Bene, non ti ha neanche sfiorato”. E dopo averne prese altrettante il secondo round, si rivolse ancora al suo secondo e gli chiese ancora come andasse. E quello, ancora: “Bene, non ti ha neanche toccato”. E allora il pugile, segnato ma non ancora suonato, gli disse: “Da’ un’occhiata all’arbitro, perché qualcuno mi sta menando di brutto”.
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