Zlatan Ibrahimovic si rialza dopo un contrasto durante il derby di domenica pomeriggio, vinto dall'Inter 3-0 (foto LaPresse) 

Dopo la sconfitta nel derby

Il Milan deve scoprire cosa c'è oltre Ibrahimovic

Cercasi contrappeso virtuoso al carisma del numero 11

Giuseppe Pastore

Da 40 giorni i rossoneri in attacco non hanno altro dio all’infuori di Zlatan. È stato ed è fondamentale, ma quanto fa bene ribadire continuamente la propria subalternità al bomber svedese?

Nei film era tutto più facile. Prendete “Pulp Fiction”: quando tutto sembrava perduto e il tempo stringeva inesorabile, a un certo punto suonava al campanello il signor Wolf e risolveva in mezz'ora una brutta faccenda fonte di forte stress fisico e mentale per John Travolta e Samuel L. Jackson. “La situazione Bonnie”, si chiamava quel frammento. Bene, ora parleremo della situazione Ibra.

 

Nel Milan incappato per la prima volta in stagione in due sconfitte consecutive, con zero gol fatti e cinque subiti, ci sono due problemi ovvi. La perdita generale di entusiasmo e brillantezza fisica e mentale rispetto al girone d'andata, evidente soprattutto in soldati semplici come Saelemaekers; una difesa improvvisamente troppo leggera e ieri sforacchiata a ripetizione anche a causa di scelte discutibili da parte di Pioli, che non proteggendo i compassati Kjaer e Romagnoli ha spalancato intere isole pedonali a due schegge come Lukaku e Lautaro.

   

Poi c'è un terzo problema, meno ovvio, più sottile, eppure concreto nei numeri. Nelle ultime otto partite con Ibrahimovic titolare – ovvero da quando è rientrato in pianta stabile dopo l'infortunio di Napoli – il Milan ha segnato nove gol, sei su azione, quattro del suo totem: gli unici due che sfuggono al conteggio sono la doppietta di Rebic per il 3-0 e il 4-0 al Crotone, a partita già sotterrata. Vuol dire che da quaranta giorni il Milan in attacco non ha altro dio all'infuori di Zlatan. In questo calcio frullato dove un infortunio di una settimana al momento sbagliato fa in tempo a eliminarti da una coppa, quaranta giorni sono un periodo infinito. La truppa in debito d'ossigeno ricerca naturalmente la via più breve e affidabile per tirare in porta, che ormai è quasi solo la palla alta per Ibra, usato come spaventapasseri di qualche efficacia sia a La Spezia – ripetutamente messo in fuorigioco dalla difesa sfacciatamente alta di Italiano – sia nel derby, dove Zlatan è riuscito a svettare tra Skriniar, De Vrij e Bastoni solo in un paio di circostanze (e lì ci ha pensato Handanovic).

   

Banalmente si potrebbe parlare di Ibra-dipendenza, ma nel caso del Milan attuale ci sembra addirittura qualcosa di più: un soggiogamento mentale esercitato da Ibrahimovic sull'intero spogliatoio rossonero, la riduzione di uno splendido collettivo a popolo fedele al Dio Zlatan che viene riempito di riverenze persino nelle interviste. Prendete per esempio Kessié, che in settimana non ha avuto problemi a cedergli di nuovo lo scettro di rigorista nonostante quattro errori negli ultimi sei tentativi; e prendete ancora Kessié, che nelle interviste post-derby (“Zlatan ci ha detto che il calcio è così”) ne ha parlato come se fosse la Pizia.

   

Si parla solo di Ibra, un po' cannibale e un po' imbuto di un Milan intruppato dal centrocampo in su; si parla troppo di Ibra. Sempre in termini positivi, entusiastici al limite del vassallaggio: ricordandone in continuazione il peso e il carisma, i suoi compagni sottolineano implicitamente la propria subalternità.

   

Domanda: al Milan non farebbe meglio una specie di “opposizione interna” a Ibrahimovic nello spogliatoio, ovviamente virtuosa, che finirebbe per pungolare e motivare Ibra meglio di qualunque Lukaku o Zapata? Il contrappeso che erano dieci anni fa Nesta, Gattuso, Van Bommel, Seedorf e tanti altri senatori che oggi – per ovvi motivi – questo Milan, la squadra più giovane del campionato, non ha più? E del resto il capitano, sottoposto ancora una volta al trattamento Lukaku, è il più bersagliato sui social, mentre il portierone e il numero 10 tengono da settimane l'ambiente in ambasce – più o meno consapevolmente – con la tarantella del rinnovo di contratto. L'iniezione invernale di “cattiveria”, fondamentalmente l'inserimento in spogliatoio dell'antico Mandzukic che non giocava una partita vera da quando ancora ci stringevamo la mano, pare aver spostato il verbo dello spogliatoio ancora più sull'Ibracentrismo. E adesso – la realtà romanzesca – arriva addirittura il chiacchieratissimo fuori programma del Festival di Sanremo: una bagattella interessante solo per chi non ha niente da fare e niente da scrivere, ma che nel pissi-pissi generale rafforza la sensazione che Ibra non sia “primus inter pares”, ma semmai “più uguale degli altri”, condizione naturalmente accettatissima da uno spogliatoio e un allenatore che gli deve tutto perché lui per mesi ha “risolto i problemi” come il signor Wolf, deus ex machina del clamoroso cambio di passo concepito nel lockdown.

    

Ma adesso che il Milan è cresciuto e può sognare in grande, ha da riporre nell'armadio la coperta di Linus e scoprire cosa c'è oltre Ibra. Il trailer l'ha già visto, ed è stato molto bello: 26 punti in undici partite da settembre a gennaio (a fronte dei 23 nelle dodici partite con Zlatan titolare), le gambe che frullavano e le teste leggere, un primo posto mantenuto a lungo in relativa scioltezza. Zlatan li aiuti a fare di nuovo a meno di lui: che non vuol dire sparire, finire in panchina, non rinnovare il contratto, ma semplicemente allentare la morsa, non ribadire costantemente la propria indispensabilità.

   

Magari cambiare qualcosa, affiancargli una seconda punta (Rebic o Leao), irrobustire un centrocampo che ora fa grossa fatica a sostenere il 4-2-3-Ibra. E forse, come ci si stupisce la prima volta a nuotare da soli o ad andare in bicicletta senza rotelle, si stupiranno a scoprire che, come tutte le cose, Zlatan Ibrahimovic è eterno solo finché dura.

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