il foglio sportivo

Il silenzio tra le coppe che aspettano di essere alzate ancora

Emmanuele Michela

L’azienda famigliare italiana che fa coppe e medaglie per calcio, pallavolo, nuoto e adesso ha spento i macchinari. “Champions ed Europa League 2020 le abbiamo consegnate, serviranno?”

C’è il tanfo delle macchine che lavorano i metalli, lo stridore delle lime automatiche che addolciscono i bordi delle medaglie, tute e guanti sporchi per i ritmi d’officina. Perché ogni opera d’arte prima di essere un gioiello è materia grezza che chiama a sé mani volenterose di plasmarla, quasi una personale elevazione dalla terra degli uomini alle stelle della gloria. Fa lo stesso movimento ogni coppa che esce da questa azienda, la GDE Bertoni di Paderno Dugnano, quel chilometro a metà tra l’hinterland che vive con l’ambizione di Milano e la Brianza che lavora di gomito. Il nome ai più dice poco, ma chi è sufficientemente addentro al mondo dello sport sa che da qui arrivano gran parte dei trofei alzati al termine dei maggiori tornei internazionali sportivi. La Coppa del Mondo, per dire la più celebre, è nata qui, negli anni Settanta, ma non è la sola. Anche Champions League ed Europa League prendono forma in questa officina, una piccola impresa di tradizione famigliare che non conta nemmeno 15 dipendenti, a metà tra l’orafo e il metalmeccanico, nata a inizio Novecento e ora arrivata a servire clienti prestigiosi come Fifa, Uefa, Fivb, ma pure la Royal Court del Bahrein, la Federazione calcistica Araba e la casa reale saudita.

 

Ecco, oggi però nessun macchinario funziona più alla Bertoni: il silenzio domina, non si parla più di medaglie e licenze ma di cassa integrazione e prospettive sul futuro. Se c’è un luogo dove si guarda con una preoccupazione diversa l’empasse in cui è entrato lo sport nel mondo a causa del coronavirus è proprio qui.

 

Gli operai sono tutti a casa, sospesi tra il lockdown imposto dal governo e l’alt alle manifestazioni sportive. “Siamo riusciti a consegnare la Champions e l’Europa League poche settimane prima della chiusura”, spiega al Foglio Sportivo Valentina Losa, proprietaria e ceo di GDE Bertoni. “La richiesta della Uefa è di averle tre mesi prima delle finali, per cui abbiamo fatto appena in tempo. Poi, però, abbiamo dovuto sospendere tutto”. Ad esempio la produzione di circa 15 mila pin in vista delle Olimpiadi di Tokyo 2020 (le medaglie, per volere del CIO sono sempre prodotte da un’azienda del Paese ospitante, per Roma 1960 le fecero proprio qui), ma anche la fornitura di numerose onorificenze per i tornei internazionale di volley e beach volley organizzati dalla Fivb, o quelle per tutti gli eventi della Fina che erano in programma quest’anno.

 

Valentina parla con realismo, prima che con preoccupazione: “Attualmente siamo passati dalla prospettiva di un anno pieno di lavoro per le competizioni calcistiche e di volley, anche perché alcune federazioni avevano aumentato ordini, al dover fermare tutto. Siamo inoltre licenziatari Fifa dal 2012, producendo per loro tutte le medaglie per le loro competizioni, e ce n’è una marea: dal campionato del mondo per club ai tornei di futsal, le categorie U17, U19, tutto in versione sia maschile che femminile”. Si parla di un giro di produzione di 20-50 mila pezzi all’anno, solo per il massimo organismo calcistico internazionale. “Lavoriamo, chiaramente, anche con un certo anticipo sui prossimi anni. Ecco, tutto questo oggi non possiamo farlo”. Losa ha un timore: “Prima o poi tutto ripartirà, mi auguro. Spero solo che però le diverse competizioni sportive non si muovano tutte assieme, ma scaglionate: sarebbe impossibile per un’azienda piccola come la nostra poter stare dietro a un boom di ordini, dopo mesi di inattività”.

 

Qui le coppe e le medaglie transitano verso i grandi stadi e palazzetti di tutto il mondo da più di un secolo: la prima sede della Bertoni era a Milano, in corso Garibaldi, ma era solo un piccolo laboratorio, che sarebbe stato abbandonato nel ’44 dal nonno di Valentina, Eugenio, con l’intento di creare a Novate Milanese un centro di produzione.

 

Le Olimpiadi di Roma (con la relativa produzione di medaglie) segnarono un primo successo per l’azienda, seguito dalla creazione della Coppa del Mondo negli anni Settanta: il Brasile vinse il terzo Mondiale di calcio e si portò a casa la Coppa Rimet, così la Fifa era in cerca di un nuovo trofeo da assegnare. Bertoni partecipò con un progetto curato dal direttore artistico Silvio Gazzaniga, che fu scelto come vincitore. “Per creare un simbolo universale della sportività e dell’armonia del mondo sportivo, mi sono ispirato a due immagini fondamentali: quelle dell’atleta che esulta e del mondo”, avrebbe poi raccontato Gazzaniga. “Volevo ottenere una rappresentazione plastica dello sforzo che potesse esprimere simultaneamente l’armonia, la sobrietà e la pace. La figura doveva essere lineare e dinamica per attirare l’attenzione sul protagonista, cioè sul calciatore, un uomo trasformato in gigante dalla vittoria, senza tuttavia avere niente di super-umano. Questo eroe sportivo avrebbe riunito in se stesso tutti gli sforzi e i sacrifici richiesti giorno per giorno ai suoi fratelli e avrebbe incarnato il carattere universale dello sport come impegno e liberazione, stringendo il mondo tra le sue braccia”. Rieccola, quindi, l’elevazione dalla terra alle stelle.

 

In realtà il primo bozzetto del trofeo prevedeva un pallone al vertice, che fu sostituito con il mondo per volere di Eugenio Losa. Che nel frattempo in azienda aveva fatto entrare il figlio, Giorgio, e che di lì a poco avrebbe allargato gli incarichi dell’azienda verso nuovi accordi, a partire da quelli con la Uefa: si è partiti con la progettazione e produzione della Coppa Uefa per poi arrivare a produrre la Champions League, che invece ha alle spalle un disegno svizzero. A Paderno, in realtà, viene prodotta solo una replica della coppa dalle grandi orecchie, quella che viene assegnata al club vincente, mentre l’originale rimane in mano alla Uefa: qui torna ogni anno solo per l’incisione del nome della squadra trionfatrice. “Entrambi i trofei chiedono un lavoro di 2-3 mesi”. Parla col piglio da manager lombarda, ma usa le parole dolci dell’artigiano che esalta le sue produzioni. “La Champions è prodotta tutta a tornio, con le orecchie che poi vengono cesellate a mano. Il procedimento per produrre l’Europa League, invece, è diverso: una sezione, quella più bassa, è prodotta tramite fusione, mentre la tazza è in lastra, ma non è fatta a tornio, bensì girata a mano e poi picchiettata alla base”. L’arte chiede dettagli, dedizione e amore. Ed è ancora poco: la coppa del campionato arabo chiede ben sei mesi di lavoro.

 

Valentina ha preso in mano la GDE Bertoni a partire dal 2010, in un modo che è tutto da raccontare: il padre venne a mancare e lasciò scritto, sul testamento, che l’azienda avrebbe dovuto essere data in eredità proprio a lei. “Pensare che ero l’ultima arrivata, e avevo fatto altri lavori fino ad allora… Inoltre ero donna in un ambiente che è prettamente maschile e maschilista, tanto come dipendenti quanto come clientela. Non solo, pochi mesi dopo l’assunzione dell’incarico ero incinta della mia terza figlia”. Discorsi e formule servono a poco, la realtà sa essere aspra ma non impenetrabile: “È stata dura, e dopo 10 anni non ho più grandi recriminazioni. Ho dovuto imparare tanto, anzitutto a farmi rispettare e conoscere”. Il rischio di rimanere per sempre la “figlia del capo” era enorme: “Ho iniziato a cambiare un po’ di cose, anche scontrandomi con qualcuno all’interno dell’azienda. Ci sono stati rimpasti e ho iniziato a usare la mia testa, anche allontanandomi da quello che avrebbe fatto mio papà e assumendo delle decisioni mie. Se lui fosse stato ancora vivo probabilmente ci saremmo scornati, ma ora penso che la strada intrapresa sia quella giusta”. Questo è successo affiancando la vita di manager a quella di mamma: “Ho tre figlie, tutte desiderate e amate, che mai come in questi giorni difficili mi stanno sostenendo”. Mentre parla apre una lezione di scuola su Zoom a una delle ragazze: “Nell’ultimo anno mi sono accorta di averle trascurate a causa del lavoro: in questo periodo siamo tutti chiusi in casa e me le sto godendo tantissimo”.

 

Losa parla anche di una fratellanza diversa che si è generata con i clienti, in questo periodo tanto travagliato. Nei giorni in cui la Lombardia piangeva un’infinità di morti e contagi, più di un partner le ha scritto in maniera non formale, per sapere lei e la sua famiglia come stavano. “Ciò che più mi ha commosso è stato un messaggio del figlio del re del Bahrein: ‘Preghiamo per voi, per te e la tua famiglia’. Con loro il rapporto si era intensificato già un anno fa: la Royal Court del Bahrein è cliente della nostra azienda dai tempi di mio nonno, io però solo lo scorso anno ero stata ospite loro per conoscerli direttamente, furono dei giorni bellissimi”. Certo, un messaggio così schietto e di cuore non se lo aspettava però: “In generale, anche con altri interlocutori c’è un modo diverso di trattarsi: le mail non si chiudono più con best regards ma con take care”. Finezze, forse, ma gradite e per nulla scontate.

 

La domanda è lecita, a questo punto. La Champions League 2020 verrà alzata al cielo o no? Losa mischia le carte: “Noi non abbiamo feedback ufficiali”. Quello che sa è quanto si legge sui giornali: la Uefa è pronta a fare il possibile per portare a termine la competizione, anche se certo oggi tutto ciò pare utopico. “Qualora non si riuscisse ad arrivare alla finale, non so certamente dire cosa potrebbe succedere al trofeo: nell’incisione è presente l’anno 2020, che quindi non può essere modificato”. Diventerà una coppa mai assegnata, simbolo di un anno terribile. Con l’Europa nel fango dell’epidemia, ma, negli occhi, la nostalgia delle sue stelle più belle.

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