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Quando le francesi conquistarono l'Europa

Francesco Caremani

Gli anni Novanta del calcio furono la decade delle grandi vittorie delle italiane nelle coppe europee e del fuoco di paglia transalpino

I Novanta del Novecento sono anni di grande subbuglio nazionale e internazionale, dalla prima Guerra del Golfo al tentato golpe in Urss, da Tangentopoli agli attentati mafiosi che uccidono i giudici Falcone e Borsellino, dalla guerra civile jugoslava, con la strage di Srebrenica, fino al terremoto che colpisce Marche e Umbria. Un decennio devastato e devastante nel quale sono messe in discussione tante delle sicurezze e delle conquiste sociali e civili del cosiddetto secolo breve. Nel calcio è un periodo in cui vinciamo le coppe europee a mani basse, nel 1990 addirittura tutte e tre (Milan Campioni, Sampdoria Coppe e Juventus Uefa), ma soffriamo dannatamente con la Nazionale, terza al Mondiale casalingo del 1990 e seconda in quello statunitense nel 1994, perdendo ai rigori contro il Brasile di Dunga. Il secolo termina con l’idea, sbagliata, che il mondo sia diventato un villaggio globale dove merci e uomini possano girare liberamente, vero in parte, mentre si mettono le radici del villaggio globale digitale e il passaggio dal 1999 al 2000 inizia con una fake news: l’idea del millennium bug che avrebbe messo in ginocchio Rete e computer di tutto il mondo. Nelle coppe europee, invece, nuove regine si affacciano per una sola notte alla ribalta internazionale.

  

Stella Rossa, Coppa dei Campioni, 29 maggio 1991

 

 

Il 26 giugno Slovenia e Croazia si dichiarando indipendenti dalla Jugoslavia, il 2 luglio scoppia la guerra civile: i militari scatenano un’offensiva contro sloveni e croati. Poco più di un mese prima la Stella Rossa di Belgrado vinceva la sua prima e unica Coppa dei Campioni e la cosa clamorosa è che lo faceva con una squadra in cui c’erano serbi, ovviamente, croati, bosniaci, macedoni, montenegrini e quel Belodedici che diventato Belodedic conquistava la sua seconda coppa dalle grandi orecchie con due squadre dell’Europa dell’Est; un record incredibile. Quella vittoria è stata il canto del cigno di una generazione di calciatori che uniti erano una potenza, separati, a parte la Croazia, non erano niente e il dopo calcistico lo ha ampiamente dimostrato. La Stella Rossa affronta ed elimina il Grasshoppers, i Rangers di Glasgow, la Dinamo Dresda e il Bayern Monaco, senza grande fatica, tanto forte era quella squadra che nelle sue file poteva schierare Jugovic, Mihajlovic, Prosinecki, Savicevic, Pancev, ecc. Un centrocampo dal talento cristallino, con una grinta da fare impallidire gli uruguaiani e con capacità balistiche irripetibili. L’avversario è l’O. Marsiglia che si sta affacciando piano piano alla ribalta internazionale grazie alle cure del tecnico belga Goethals e a un altro serbo di talento: Dragan Stojkovic; oltre a Chris Waddle e Jean-Pierre Papin. I francesi battono la Dinamo Tirana, il Lech Poznan, il Milan (nella tristemente famosa notte di Marsiglia nella quale Galliani ritirò la squadra sotto di un gol perdendo a tavolino 3-0 e venendo squalificata per la stagione successiva dalle coppe europee) e lo Spartak Mosca. La finale di Bari si contende con quella di Siviglia, vinta dalla Steaua Bucarest, l’Oscar per la noia, in una partita che arriva all’ultimo secondo senza un gol e sullo 0-0 si va ai calci di rigore. Prosinecki porta la Stella Rossa sull’1-0, poi tocca al terzino francese Amoros che prende una lunga rincorsa e tira cervelloticamente facendosi parare il tiro da Stojanovic. Sarà l’unico errore e, alla fine, la rete di Pancev decreterà la Stella Rossa campione d’Europa. La guerra civile ha fatto il resto, relegando quella vittoria all’archeologia del pallone.

   

Werder Brema, Coppa delle Coppe, 6 maggio 1992

  

 

Nel 1992 un satellite americano scopre gli addensamenti materiali che hanno dato origine alle galassie, sarebbe la prova del Big Bang che avrebbe dato origine al cosmo. La Coppa delle Coppe, invece, è arrivata alla sua trentaduesima edizione, perdendo un po’ del suo fascino e del suo interesse, ma certamente non per chi la vince. Questa volta la nostra regina è una squadra tedesca che negli anni Ottanta e Novanta le squadre italiane hanno incrociato alcune volte e non sempre positivamente. Una squadra ostica con un allenatore, Otto Rehhagel, che porterà la Grecia sul trono d’Europa un decennio o quasi dopo. I biancoverdi eliminano il Bacau, il Ferencvaros, il Galatasaray e il Club Brugge, rimontando l’1-0 subito in Belgio. La finale si gioca a Lisbona il 6 maggio del 1992, in quell’anno un altro underdog vincerà il Campionato Europeo per Nazioni, la Danimarca, ripescata dopo la squalifica della Jugoslavia, dilaniata dalla guerra civile. L’altra finalista è il Monaco, che ha in panchina un giovane Arsene Wenger e calciatori di grande talento in rosa: da Emmanuel Petit a Marcel Dib, da Rui Barros a George Weah al giovane Youri Djorkaeff. Il tecnico francese schiera i suoi con il 4-4-2 mentre Rehhagel opta per un 3-5-2, densità in mezzo, possibilità di difendersi in cinque e contropiede. Sarò proprio questa strategia a mettere in difficoltà il Monaco che avrà più possesso palla, farà la partita, ma alla fine dovrà salutare la coppa. Il kappao è tremendo, perché i tedeschi passano in vantaggio al 41’ con Klaus Allofs, un bomber di razza sottovalutato, e al 54’, poco dopo essere tornati in campo, segnano il 2-0 con il neozelandese Reufer. Nello stadio da Luz di Lisbona si spengono così le luci biancorosse dei francesi e si accendono a festa quelle biancoverdi dei tedeschi.

   

Olympique Marsiglia, Champions League, 26 maggio 1993

 

 

Nel 1993 al centro di ortopedia del Sutter General Hospital di Sacramento, California, si svolge la prima operazione chirurgica effettuata da Robodoc, un robot dotato di un braccio meccanico in grado di lavorare con una perfezione non raggiungibile da un essere umano. All’università di Baltimora è scoperto il gene che provoca il tumore del Colon. Nel calcio europeo, invece, la grande novità è la nascita della Champions League, ex Coppa dei Campioni, che inizia mutando la formula e il nome, come lo conosciamo oggi. La prima edizione, se così si può dire, la vince quell’Olympique Marsiglia che aveva perso la finale due anni prima contro la Stella Rossa di Belgrado. La squadra allenata sempre dal belga Goethals è ancora più forte, con Angloma, Boli e Desailly in difesa, Deschamps e Sauzée a centrocampo, Abedi Pelé e Boksic in attacco. La formula, ancora tutta da definire e che muterà per alcuni anni ancora, prevede i sedicesimi di finale dove i francesi asfaltano il Glentoran, negli ottavi invece eliminano la Dinamo Bucarest e poi due gironi da quattro per definire le finaliste. Nel gruppo A il Marsiglia passa per un solo punto sui Rangers Glasgow, con tre vittorie e tre pareggi, segnando 14 reti e subendone solo 4; alla fine Boksic e Sauzée avranno siglato 6 gol a testa. Nel gruppo B, il Milan di Fabio Capello è un rullo compressore, con sei vittorie su sei, 11 reti fatte e solo una subita, contro IFK Göteborg, Porto e PSV Eindhoven. Rossoneri che avevano eliminato Olimpia Lubiana e Slovan Bratislava nei turni precedenti. La finale si gioca all’Olympiastadion di Monaco di Baviera il 26 maggio e il pronostico è tutto per il Milan, anche se proprio in questi anni l’Olympique Marsiglia si è dimostrata la bestia nera della squadra italiana. I rossoneri hanno la difesa della Nazionale azzurra più Rijkaard e Van Basten, senza considerare l’acquisto di Jean-Pierre Papin proprio dai biancazzurri. Alcune scelte cervellotiche di Capello e la forma scarsa di tutta la squadra fanno subito capire che non è serata anche se le palle gol più importanti ce l’hanno i rossoneri, ma col passare del tempo i francesi acquistano fiducia e su calcio d’angolo trovano la rete del vantaggio con il centrale Basile Boli, di testa. Risultato che resterà inchiodato fino all’ultimo sull’1-0. Il Milan, con Capello in panchina, anche se si rifarà alla grande l’anno dopo, subisce una delle tante sconfitte in una finale di coppa. L’Olympique Marsiglia diventa, invece, l’unica squadra francese ad alzare la coppa dalle grandi orecchie, anche se di lì a poco sarà travolta dal calcioscommesse.

 

Psg, Coppa delle Coppe, 8 maggio 1996

 

 

Il 1996 è l’anno in cui i film Braveheart vince l’Oscar, eguagliando le statuette di Ben Hur, 11. Nel mondo si afferma il World Wide Web (www), sistema di navigazione della rete Internet, appena 24 anni fa. In Coppa delle Coppe è la volta di un’altra squadra francese, il Psg, che aveva provato in tutti i modi a levarsi di dosso la polvere dei decenni precedenti e l’ombra di altri club francesi più popolari, tra cui lo sportivamente odiato Olympique Marsiglia, la capitale contro la periferia, la borghesia contro il popolo. Ma nel 1996 è un pezzo della Francia campione d’Europa nell’84 a guidare la società parigina all’unica affermazione europea, Luis Miguel Fernandez. Nei sedicesimi spazza via il Molde, negli ottavi il Celtic, nei quarti ha la meglio sul Parma, che in questa competizione sembrava esserci nata, e in semifinale il Deportivo La Coruna, squadra ostica che si è tolta più di una soddisfazione in Europa, senza vincere mai niente. La finale si gioca allo stadio Re Baldovino (ex Heysel) di Bruxelles l’8 maggio e l’avversario è il Rapid Vienna allenato da Ernst Dokupil. La squadra austriaca, mai fortunata nelle finali di coppa, a parte Michael Konsel in porta e il tedesco Carsten Jancker in attacco, è un gruppo affiatato di giocatori discreti, ma niente a che vedere con il talento che può mettere in campo il Psg. Il Rapid Vienna è arrivato in Belgio battendo il Petrolul Ploiesti, lo Sporting Lisbona, la Dinamo Mosca e il Feyenoord. Modulo speculare, 4-4-2, ma con interpreti decisamente diversi. I francesi, infatti, hanno Rai e Bravo, ma pure Djorkaeff e Guerin, senza contare il centrale N’Gotty. Ed è proprio lui a portare in vantaggio i parigini al 28’ con un gol incredibile: punizione a centrocampo per fallo su Djorkaeff, batte il numero 4 del Psg, il tiro è forte e teso, attraversa tutta la metà campo austriaca e si infila alla destra del malcapitato Konsel, che l’anno successivo si trasferirà alla Roma, con decisiva deviazione del 4 austriaco, Peter Schöttel. La differenza tra le due squadre fa il resto e per la prima volta quella della capitale francese vince una coppa europea, fino a oggi l’unica.

  

Schalke 04, Coppa Uefa, 21 maggio 1997

 

 

Nel 1997 a Edimburgo nasce la pecora Dolly, primo animale creato da clonazione, senza ricorso all’inseminazione, l’esperimento, condotto dallo staff del professor Ian Wilmut, ripropone il problema del rapporto tra scienza ed etica. In Coppa Uefa, invece, si ripropone il rapporto tra l’Inter e la manifestazione, un rapporto solido e felice, ma non in questo caso, nonostante i favori del pronostico. L’avversario è lo Schalke 04, squadra tedesca senza grande blasone, ma decisamente difficile da digerire e bestia nera dei nerazzurri in quegli anni. I tedeschi sono allenati dall’olandese Huub Stevens e nei trentaduesimi fanno fuori il Roda Kerkrade, poi tocca al Trabzonspor, con un po’ di fatica, il Bruges, rimontando in casa la sconfitta esterna, il Valencia e il Tenerife ai tempi supplementari, la squadra spagnola che aveva smontato la Lazio di Zeman nei sedicesimi. L’Inter, guidata dall’inglese Roy Hodgson, aveva fatto fuori il Guingamp, con spettacolare rete di Moriero in rovesciata, il Grazer AK, il Boavista, l’Anderlecht e il Monaco. Due percorsi che si equivalevano per la difficoltà. La prima finale si gioca al Parkstadion di Gelsenkirchen il 7 maggio, i nerazzurri hanno tra le loro file calciatori del calibro di Javier Zanetti, Ciriaco Sforza, Aron Winter e Ivan Zamorano, senza contare Maurizio Ganz che diventa capocannoniere della manifestazione con 8 reti. Lo Schalke 04 non ha nomi altisonanti, a parte Jens Lehmann in porta Thon e de Kock in difesa, e il belga Wilmots in attacco, l’uomo che risulterà decisivo in entrambi i match. La partita è come da copione, tedeschi aggressivi e italiani attenti in difesa, nella bolgia di Gelsenkirchen. La svolta al 69’, quando Wilmots avanza e dal limite dell’area nerazzurra fa partire un tiro forte e strano che beffa Pagliuca: 1-0. La pioggia fa il resto e lo Schalke 04 vince l’andata.

 

 

Il ritorno si gioca a San Siro due settimane dopo e questa volta è l’Inter a spingere, grazie anche agli inserimenti di Djorkaeff e Ince in mezzo al campo. I nerazzurri le provano tutte ed è proprio il francese su punizione a sfidare più volte Lehmann, ma senza successo, con Pagliuca che dall’altra parte fa buona guardia. I minuti passano, ma all’84’ ecco la pazza Inter, su rimessa laterale la palla arriva a Zamorano che, nonostante la marcatura del difensore avversario, segna un improbabile 1-0. San Siro esplode e sogna la coppa. Si va ai supplementari ma niente cambia, quindi ai rigori. Anderbrügge segna il primo, poi Lehmann para un tiro forte e angolato di Zamorano, Thon segna ancora, lo fa anche Djorkaeff, Max non sbaglia, Winter, al quale Lehmann riesce a dire qualcosa di poco carino prima di consegnargli il pallone, spiazza il portiere tedesco ma apre troppo e tira fuori. Sul dischetto arriva il belga Wilmots che segna: gioco, partita e Coppa Uefa a Gelsenkirchen.

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