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il foglio sportivo

Tutte le sigarette di Dario Hübner

Marco Archetti

Chiacchierata in trattoria con Tatanka: “Non mi consideravo un calciatore. Adesso gioco in porta”

“Ora gioco in porta. Mi infilo i guanti e sono contento”. Comincia dalla fine, Mi chiamavano Tatanka (Baldini+Castoldi, 209 pagine, 16 euro), l’autobiografia calcistica di Dario Hübner. Comincia come se fosse un film, nel presente, e libera un lungo flash back che riesce a impaginare, nel medesimo e incredibile copione, la Muggia operaia di Borgo Zindis a due chilometri dalla Jugoslavia comunista e i seimilacinquecento di una tournée negli Stati Uniti coi colori del Milan; la Pievigina dei tornei interregionali e il trono della classifica cannonieri condiviso con David Trezeguet; i campi sventurati della provincia e il Salone degli Specchi del calcio vero. Storie di quando quel portiere con un cespuglio di ricci grigi li aveva tutti neri e giocava “là davanti”, lo spazio verde dove fervono le leggende, i sogni dei ragazzini fanno a spintoni e lui era chiamato Tatanka, una tripletta di sillabe per dire Bisonte. Storie di quando quel portiere era un attaccante famoso con la dieresi nel cognome ma per tutti era Darione, super Dario delle eterne provincie, triestino quasi tedesco autore di triplette vere, bomber operaio, maestà minore ma onnipotente, re delle fanghiglie provinciali e dei campi più blasonati. Storie di quando coloro che tifavano Brescia sapevano che una buona ragione per trovarsi sugli spalti dello stadio Rigamonti era aspettare, perché quando arrivava una palla “là davanti” – una qualunque palla, una palla di straforo, una palla di malatraiettoria, una palla buona, meno buona o addirittura balorda – c’era lui, animalone scalpitante che, se la intercettava, potevi star certo che partiva, e se partiva, be’, da qualche parte arrivava sempre.

 

 

Le abbiamo ancora tutti negli occhi certe sue galoppate che sollevavano polvere e sterpi, quelle incursioni sbuffanti, velenose e dirompenti di quando accucciava la testa tra le spalle, sgomitava, bruciava sul tempo i difensori più prestigiosi e al momento buono, se necessario, faceva tuonare il puntone. Il tutto senza timori reverenziali o smania di bellurie, anzi, sempre con la stessa furia screanzata da spareggio parrocchiale, perché se una cosa la provincia te la insegna è badare al sodo.

 

“A Brescia però ho fatto anche dei pallonetti. Nel corso degli anni sono migliorato molto, ho visto che mi venivano e mi sono detto: perché no? Il fatto è che io ho sempre pensato a migliorarmi, anche perché il livello degli avversari, nei miei anni di B, era altissimo. All’inizio avevo dei piedi non proprio pregiati… Per carità, fisicamente ero travolgente e quando partivo, partivo, però arrivavo dieci volte davanti alla porta e ne calciavo fuori nove.” Ride, Dario Hübner, di fronte al proprio autoritratto. E oggi, a 53 anni, con gli stessi occhi stretti e quel naso in salita nemmeno tanto triste, è un uomo che pensa al passato senza rimpianto. “Sono contento di tutto quel che ho fatto, ma non sono più quello che ero. Soffro il freddo, ormai. È da tre o quattro anni. Una volta non mi succedeva. Una volta, anche a dicembre, mi svegliavo tutte le mattine alle sette, bevevo il caffè e fumavo la mia bella sigaretta sul balcone. Adesso, zero. E poi non ho più tanta voglia. Ho corso per trent’anni e ho detto basta. Lo scatto ce l’avrei ancora, ma ho paura di farmi male”.

 


Illustrazione di Salvatore Liberti


 

Anche la lunga chiacchierata con lui, in una mattina soleggiata pre-psicosi da Coronavirus, comincia dalla fine, cioè dalla squadretta di cui difende la porta una volta alla settimana. Ne parliamo nel giardino di un ristorante che non è un ristorante qualsiasi, perché come ogni eroe da romanzo popolare Dario Hübner non può esistere separatamente dal proprio sfondo, e il suo sfondo è sempre questo: Capergnanica, unica frazione di Passarera, duemila anime nella piatta provincia cremonese. Trattoria da Rosetta. “Mia moglie faceva la cameriera qua. Il cuoco è fidanzato di mia figlia. Hanno delle grappe ottime”. Fine della recensione. Poi si stira, allunga le gambe e, seduto su una sedia di ferro battuto, fruga nella tasca interna del giaccone e un attimo dopo è lì che svapa, il che – va detto – appare subito come un controsenso, un mezzo tradimento. Gli si confessa la delusione e lui ridacchia. “A maggio è un anno che fumo ’ste sigarette elettroniche. Prima soffrivo, giocando a tennis. Ora va meglio.” Aspira, soffia davanti a sé e con gli occhi insegue qualcosa. “Adesso ti racconto le sigarette della mia vita”.

  

E allora eccoci ripagati: storia calcistica di Dario Hübner attraverso le paglie. “Ho iniziato a quattordici anni a fumare le Diana di mia sorella, perché quando mi accompagnava in giro in auto mi chiedeva sempre di accendergliele. Poi, per un periodo, ho rubato le MS a mio papà – terribili. Dai diciotto è cominciata la fase Camel senza filtro: le sigarette migliori, che buone… anche se erano difficili da gestire quando lavoravo montando serramenti. Poi, quando giocavo, diciamo da Cesena in poi, le Marlboro rosse. Ah, specifico: le 100’s. In ritiro la mia stanza sembrava la sala fumatori dell’aeroporto”. Fa un altro tiro. “Pensa che fumo di nascosto da mio figlio: appena sente l’odore, mi rimprovera. Però Mazzone lo sapeva. Ogni mio allenatore l’ha sempre saputo”.

 

Mentre pranziamo e Hübner saluta giardinieri e avventori, viene in mente un paragrafo del suo libro. “Sono stato bocciato in prima media”, si legge. “Poi ho fatto la seconda e la terza. Dopo gli esami e la licenza sono andato a lavorare e ho fatto il fabbro per una ditta specializzata in finestre. Montavo finestre in alluminio, che a Trieste, per via della Bora, erano molto richieste. Giravo con un mio collega su un furgoncino Fiat, di quelli scoperti dietro. Sono stati anni duri e intensi, ma molto gratificanti. Era un bel lavoro e mi ha insegnato molto: a saldare, a usare il trapano e la smerigliatrice, ma soprattutto mi ha fatto conoscere la fatica, quella vera, distante anni luce dallo sforzo di un calciatore. Alla fine del primo anno divenni caposquadra, che era un po’ come indossare la fascia di capitano”. Serve altro? È chiaro perché uno così sia capace non solo di dire, ma anche di essere credibile quando dice: “Se ce l’ho fatta io, possono farcela tutti”. E se per caso provi a ricordargli il non trascurabile dettaglio di 348 goal in 676 partite in tutte le serie professionistiche, lui rilancia: “È un fatto di mentalità, nessun segreto: ho fatto i miei allenamenti e alla fine sono sempre tornato a casa. E a casa mia non si è mai parlato di calcio. Se andavo al bar in paese, tutti sapevano che parlavo più volentieri di buone trattorie dove andare a mangiare. Non ho mai sentito troppo la pressione. Andavo in campo sereno, e allora fare goal era naturale”. Mentre parliamo, riceve chiamate di giornalisti e trasmissioni tv: c’è da commentare Brescia-Napoli, ci sono da promuovere il libro e da organizzare interviste e fotografie. “Sono partito dalla prima categoria, poi ci sono state la D, la C2, la C1, la B, e solo alla fine la A. Ho fatto la gavetta e nessuno mi ha regalato niente. Pensa che nemmeno quando giocavo credevo fino in fondo di essere un calciatore, tra l’altro in C2 guadagnavo un milione e due contro le ottocento mila lire che prendevo a fare l’operaio... Poi sono andato al Fano e lì, per la prima volta, grazie agli allenamenti, mi sono accorto che miglioravo. In prima categoria, cosa vuoi, lavoravo, ci trovavamo di martedì e di giovedì alle sette di sera, quattro giri di campo, due balzettini e via a giocare! Nessuno si preoccupava di farti migliorare tecnicamente. Infatti la prima volta che ho giocato su un campo in erba, a Treviso, mi son reso conto che non sapevo giocare: mi arrivavano i palloni e non riuscivo nemmeno a stopparli, schizzavano via. Io ero abituato ai campi di terra, chi mai aveva visto l’erba? L’erba la vedevo solo in televisione. Poi, a Cesena, compiuti i 25 anni, per la prima volta mi son visto come un calciatore. E all’epoca si smetteva a 32. Pensavo: avrò cinque o sei anni ancora, se va bene…”.

 

Ne ha avuti ancora dodici, tra serie A e serie B. Con Brescia, Piacenza, Ancona, Perugia, Mantova. “È andata benissimo. Spesso mi chiedono: ma dove hai imparato la cattiveria agonistica? In un parcheggio di Muggia, un piazzale asfaltato con sessanta posti auto vicino a casa. Quando da bambino giocavo a calcio dalla mattina alla sera io dovevo sempre fare a sportellate con quelli più grandi. Era un mondo del tutto diverso. Per esempio, lo vedi quel palo della luce?”, e indica fuori dalla veranda della trattoria un palo che si erge solitario tra la strada e i campi. “Ecco, c’erano i vecchi che ci dicevano: paghiamo un ghiacciolo al primo che arriva fino a lassù. E io partivo. Oggi i ragazzini cosa fanno? Nemmeno più le sane stupidaggini. Tempo fa allenavo i Giovanissimi, alcuni genitori venivano da me e mi chiedevano: nostro figlio farà carriera? Vedono nei figli un conto in banca. Io, come allenatore, ho avuto i miei problemi, perché sai, spesso si tratta di rovinarsi il fegato in situazioni per cui i presidenti impongono le formazioni. E magari ti tocca vedere un ragazzo che sta in panchina ed è più bravo di quello che gioca. Come lo guardi in faccia? Non posso mancare di rispetto a qualcuno per una manciata di soldi”. Impegno, responsabilità: parole di un tempo declinato? “Quando, durante il disgraziato girone di andata della stagione 2000/2001, i tifosi del Brescia vollero un chiarimento, io e Galli, Calori, Bisoli e Filippini rispondemmo alla chiamata. Io ci andai volentieri. Perché li capivo. Prova a metterti nei panni di un tifoso che lavora dieci ore al giorno, il sabato prende su e viene fino a Lecce a vederti, e tu non ti impegni. Puoi non sentirti responsabile?”. Non puoi. Soprattutto se sei Dario Hübner, che non è mai stato solo un calciatore, ma una categoria dello spirito: l’umiltà dell’eterno dilettante insieme alla lucidità del professionista nato. Uno come Dario Hübner ha chiuso un’epoca, portandosela definitivamente con sé. Uno come Dario Hübner non è mai esistito. Uno come Dario Hübner – forse – l’abbiamo tutti sognato.

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