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il foglio sportivo

L'allenatore che non voleva esserci

Marco Bucciantini

Il “preferisco di no” di Luca Gotti all’Udinese insegna che in questo calcio a volte la rinuncia è un valore

Si presentò: il volto decoroso e magro di un reduce, e anche le parole ricordavano una guerra dimenticata ma non ancora perduta, una faccenda intima e una storia di tutti. Era il 3 novembre, disse che i soldi non erano una priorità, ma lo diceva davvero, non per ricercare la battuta che destasse attenzione. Si ribellò alla riduzione teorica del suo lavoro, “sono 20 anni che vivo sul campo, dalla mattina alla sera, lavoro, alleno, preparo”. Luca Gotti arrivò così, allenatore che preferirebbe non esserci, perché cosa importa passare in televisione a raccontare una partita, anche se è appena finita e finita benissimo, 3-1 per la tua squadra, in trasferta, ma il lavoro si fa prima. Come è possibile studiare, capire, organizzare 25 uomini spesso convinti di possedere solo meriti e diritti, ed essere infine valutati per un rimbalzo, traditi per una scelta. “Preferirei che l’allenatore fosse un altro, a me va bene fare il vice”. Secondi non si nasce: si diventa dopo una personale trattativa con la vita.

 

Eccolo, il partigiano Gotti, che tenta sabotaggi alle invasioni barbariche e che d’improvviso ci ha ricordato che veniamo da un posto, uno qualunque, tutti. Che una radice, o una catena, ci tengono attaccati a qualcosa, da qualche parte (anche alla paura). E la modernità è una bocciata che può anche mancare il bersaglio. Nel dopo partita, a noi dirimpettai le sue parole (ripetute la domenica successiva, dopo lo 0-0 con la Spal) obbligavano a riprogettare una dimensione dove discorrere. La curiosità era quella di indagare le ferite che avevano portato a questa tenace rinuncia: ma di Gotti si sa poco, lui stesso preferisce fermare i ricordi alla schiuma dell’onda. Dell’abisso dice appena: “Ho allenato due anni in Serie B, poi per alcune vicende mi sono ripetuto che non l’avrei più fatto”. Può anche bastare (la sua carriera da allenatore è ventennale, diseguale, protagonista, promettente, poi ripiegata nell’assistenza, ma sei mesi fa era con Sarri al Chelsea a vincere l’Europa League e con Sarri sarebbe andato anche alla Juve, ma c’era un posto solo e lo ha preso Martusciello, pasdaran del tecnico toscano, mentre la società ha chiesto a Sarri di ‘crescere’ Barzagli nello staff, e quindi la speranza di Gotti è finita lì, senza amarezza ma con qualche rimpianto).

 

Va tutto bene, domenica alle 18 sarà davanti alla panchina dell’Udinese, sull’erba umida di Marassi, lo stadio di quel 3-1 che anticipò quelle parole e questo pezzo, imbrogliando la trama di quest’uomo. Allora fu il Genoa, adesso la Sampdoria. Va tutto bene, ci sarà, anche se preferirebbe di no. Come Bartleby, che rispose all’annuncio del titolare di uno studio legale di Wall Street in cerca di uno scrivano: gli affari andavano bene e aveva bisogno di allargarsi. Si presentò in ufficio come una figura “pallidamente linda, penosamente decorosa”. Saltare nelle pagine di Melville è troppo facile, il copista diligente è ormai un approdo dell’immaginario, è quello che si rifiuta di svolgere altri compiti, rinunciando alle gratificazioni, qualifiche, soldi, niente: “I would prefer not to”. Una frase che diventa una spiegazione senza esserlo, una rinuncia che diventa un rifiuto per un passo avanti che deve sembrare lungo come uno sprofondo. Quindi meglio proteggersi, fino a imprigionarsi (e proprio in carcere finirà lo scrivano – e di rifiuto morirà). Allora Gotti resiste, ci prova, fa un passo ancora dopo aver pesticciato il terreno, per esserne sicuro, tornerà alle telecamere a raccontare un’altra partita e sarà salvo dalla corruzione, perché il suo “no” è intatto, onesto. Spesso il “no” è l’ultimo gesto che resta per affermare qualcosa e la rinuncia è un arricchimento di valore. Niente di sacro, roba di uomini, non di santi. Noi che passiamo al setaccio le partite fino a intessere nullerie abbiamo davanti uno schema nuovo o almeno dimenticato, che riaffiora come una novità. In fondo, un allenatore non può offrirci di meglio.

 

Per il ruolo, per lo studio, per la mascella tracciabile, per la sottrazione di parole ricorda Sergio Buso, uno straordinario uomo di calcio, prima portiere e poi tecnico enciclopedico e grande, lo chiamavano Buster Keaton per la somiglianza di un volto infinito, e sicuramente Buso era un uomo da cinema muto. Per ogni allenatore incontrato, saperlo lì accanto era un rifugio, un sollievo, una forza. Quando si mise in proprio, a Firenze, anche lui per la solita emergenza (chissà perché al calcio piace il mare mosso, anche quando naviga sulle barchette) ricordò l’uomo che non c’era, il barbiere dello straordinario film dei Cohen, al quale la vita aveva servito mani perdenti, “o non ho saputo giocarle”. Un giorno, decise di vivere, di esserci. E avviò una serie di eventi di grottesca tragicità e un sistema di relazioni umane ipocrite ma consolidate fu distrutto. Non è una condanna dell’evidente inadeguatezza, ma la feroce e cinica coscienza di un mondo (o un negozio di barba e capelli) dove ognuno inizia e finisce con la sua parte perché nessuno sa vederti sotto al grembiule.

 

Sono uomini che ci sono. Interi, silenziosi, preziosi. C’era Buso, c’è Luca Gotti. Ci sono per il nostro nascosto desiderio di averli e magari dimenticarli, umiliarli per battutisti vanitosi e facili vincitori. E poi ritrovarli, così come quella conchiglia sepolta di sabbia o la strada di casa. Con loro possiamo cominciare a spiegare qualcosa, accettare il nostro bisogno di essere (anche) uomini classici, radicati, e riconoscerli fra gli altri come l’unico modo di difenderci dal tempo. Una ricchezza che ci illude di eternità, documento di sopravvivenza, indizio romantico di noi stessi nell’età del consumo e del successo. Forse, ma non è sicuro, Gotti difende noi stessi dalla messa a riposo delle nostre illusioni, in questo rovesciamento di senso, dove la semplice stoffa della quale siamo tessuti è ormai un vestito impolverato e dimenticato in un cambio di stagione senza fine. Accettare la gratifica, il ruolo illuminato è una forma fra le tante che forgia quel finto valore dall’insopportabile potere uniformante, che domina in tutti i settori: la sicurezza. Di essere così giustamente riconosciuti e ricompensati perfino in un mondo, quello del calcio, dove ogni rapporto ‘materiale’ è saltato in aria, dove non c’è teoria che sostenga i numeri e di conseguenza anche ogni valutazione è per definizione fasulla. E sarebbe un peccato coprire di nostalgia queste notizie, ideologizzarle e armarle in una guerra fra gli eserciti di ieri e quelli di oggi. Tra l’altro, di dialettiche perdenti il calcio si nutre (giocar bene o vincere, la più cretina), svuotando il significato di se stesso. Anche perché non avendo intenti definitivi, è impossibile avere una posizione chiara sul concetto di migliore, almeno limitatamente alle cose. Ma era necessario ascoltare qualcosa di nuovo, vedere un uomo tutto da inventare senza l’aiuto di una pagina Wikipedia di 20 scarne righe, e con lui poter dire che il sapore è una sensazione complessiva, che una truffa dappoco è quella di affidare al tempo e alle sue mode il giudizio e peggio ancora crederlo oggettivo, solo perché è gratificante far parte del consorzio. Che non tutto migliora ma niente è da buttare, non tutto diventa chiaro e le parole antiche esplodono quando sanno rimandare la radicale diversità tra le persone.

 

Luca Gotti ci dà un elemento decisivo, senza saperlo o volerlo spiegare. E l’andazzo sarebbe la carie di questa spiegazione, svuotandola fino al ridicolo. Molte cose sono migliorate, questo è oggettivo: ma non per forza o per tutti hanno migliorato la vita perché così accade se il ‘costume’ di un progresso che si traveste da unica civiltà possibile ti impone le emozioni, le delusioni, e anche gli obblighi, i ‘divieti’ (nel calcio, per esempio, i rapporti di forza fra i giocatori e gli allenatori sono cambiati, anche fra i giocatori e le proprietà: con i rapporti di forza muta anche la possibilità di comunicare, la severità e la soddisfazione di insegnare). La vita, dunque. Perfino nel finale, che sembra contraddittorio, c’è qualcosa da dire: preferirebbe non esserci, ma ci sarà, ancora per una partita, ancora un po’. Come una medicina, forse lo è.

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