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Non solo la Tropicale Amissa Bongo. Tutto il ciclismo d'Africa

Marco Pastonesi

Dal Tour du Faso al Tour of Rwanda, dai freni di Desirè Kaborè a “Mister Sunshine” Meron Amanuel. Storie di fughe, compleanni e biciclette sulle strade africane

La mia Africa è il Tour du Faso, nel Burkina Faso, a cominciare da quello del 2006, 108 corridori di 18 squadre, 15 nazioni e tre continenti, e una quantità di storie, storie di vita a due ruote, con cui riempire l’etere, a cominciare da quella del nigerino Djibril Hassane, che due giorni prima del pronti-via spacca la bici e allora corre con quella dell’allenatore, solo che l’allenatore (e la sua bici) è alto una spanna più di lui.

 

La mia Africa è il burkinabè Desirè Kaborè, corridore in una delle tre squadre del Burkina Faso, che in una tappa di quel Tour du Faso fa la volata, una volata a tre, per conquistare il 72° posto (dei 90 corridori rimasti in gara) a 9’57” dal vincitore, vince la volata, si gode il successo, tira un sospiro di sollievo, anche perché è stata una giornata dura e polverosa, finché tira i freni. Ma qui si accorge di non avere più i freni, saltati per via dello sterrato, e allora frena con quello che gli rimane, cioè con la voce, urlando, e con i piedi, puntandoli a terra. Così evita un paio di bambini che attraversano la strada, poi inevitabilmente si schianta contro una macchina parcheggiata dopo l’arrivo. Ma fra una botta al gomito e una allo zigomo, ha anche una botta di culo, perché la macchina contro cui si schianta è l’ambulanza.

 

La mia Africa è il Tour of Rwanda. La storia antica tramanda un’edizione in cui sono più numerosi i corridori all’arrivo dell’ultima tappa di quelli alla partenza della prima: un’acrobazia spiegata con l’ingresso delle squadre strada facendo. Alcune si sono presentate in tempo al pronti-via, ma senza bici, bloccate a una dogana, oppure il contrario, sono pervenute le bici ma non i corridori. Altre sono giunte in ritardo per colpa di un pullman recalcitrante, di una guerra strisciante, di un finanziamento singhiozzante. Ma sono tutte state accettate e accolte, a condizione che i corridori si allineino dal fondo della classifica. Un dettaglio, a quel punto, irrilevante. Si narra addirittura di un’edizione in cui, delle tappe, sono sempre conosciute le sedi di partenza, ma non quelle di arrivo: perché l’organizzazione avrebbe bisogno di un collaudo, di un rodaggio, di un perfezionamento impossibili a quelle latitudini, a quelle situazioni, a quelle urgenze.

 

La mia Africa è Jonathan Boyer, Jock, ed è anche la storia contemporanea del Tour of Rwanda. Boyer è il primo statunitense a correre il Tour de France (nel 1981), 87 vittorie da dilettante e 49 da professionista, poi una condanna per molestie su minori e la detenzione in un istituto di pena, quindi la telefonata dell’amico Tom Ritchey, uno degli inventori della mountain bike e costruttore di biciclette, e la conversione, l’idea di ricominciare tutto – ciclismo e vita – in Ruanda, il reclutamento dei futuri corridori fra i garzoni del caffè, la scoperta e il lancio di Adrien Niyonshuti, il primo corridore ruandese nel grande ciclismo, il successo internazionale agonistico e mediatico del Tour of Rwanda, la costruzione di un centro ciclistico all’avanguardia mondiale nelle attrezzature (e nell’altitudine di Musanze, a quota 1850).

 

La mia Africa è Adrien Niyonshuti, sopravvissuto al genocidio che elimina la sua famiglia a colpi di machete, il primo corridore ruandese alle Olimpiadi (quelle di Londra nel 2012, in cui fa anche da portabandiera nella cerimonia inaugurale), e la sua scuola di ciclismo a Rwamagana. La chiamano accademia, ma è una casetta di campagna, cinque locali più i servizi, due camere con quattro letti a castello, una con due letti a castello, una matrimoniale, totale dodici posti. Sala, bagno e cucina: più giardino. E frigorifero chiuso a chiave. E’ un piccolo miserrimo paradiso equatoriale perché bambini e ragazzini della sua città trovino nel ciclismo una strada, un sentiero o una pista, comunque un modo per imparare a stare al mondo. Un’accademia più come scuola di vita che come scuola di bici: salite e discese, volate e inseguimenti, fughe e cadute hanno un senso non solo stradale, ma soprattutto esistenziale.

 

La mia Africa è scoprire, al Tour of Rwanda del 2015, che Valens Ndayisenga, vincitore del Tour of Rwanda 2014 e dorsale numero 1 al Tour of Rwanda 2015, è nato il primo gennaio del 1994. Lo stesso preciso giorno-mese-anno in cui è venuto alla luce Jean-Claude Uwizeye, dorsale 55. Invece il primo gennaio del 1988 è nato Joseph Biziyaremye, dorsale 52, il primo gennaio del 1993 Jérémie Karegeya, dorsale 53, il primo gennaio del 1996 Joseph Areruya, dorsale 51, e Ephrem Tuyishirmire, dorsale 105. Sei dei 15 corridori delle tre squadre nazionali del Ruanda sono nati il primo dell’anno. Strano, ma vero. La ragione sta nel genocidio del 1994 – un milione di morti in un centinaio di giorni – che ha stravolto il Ruanda. I certificati di nascita sono stati dimenticati e gli uffici anagrafici trascurati finché, per sanare la situazione, ufficiali e genitori hanno deciso di dare il pronti-via con una data simbolica: ogni inizio anno, cioè il primo gennaio, appunto.

 

La mia Africa è Meron Amanuel, “Mister Sunshine”, il signor-sole-che-splende. Meron di nome e Amanuel di cognome, asmarino, cioè eritreo di Asmara, una delle capitali mondiali del ciclismo. E sorride quando racconta che “il ciclismo era quello degli italiani, poi è diventato nostro, sport e storia, passione e vita”. Anche la sua. La sua passione, la sua vita, la sua storia. Il papà che corre, ma per divertimento, come corridore non è niente di che. Anche lo zio che corre, ma per agonismo, come corridore è normale. Un giorno il papà porta Meron a vedere lo zio che corre: la gente, la strada, le bici, e poi quel clima di festa, di gioia ma anche di tensione. E Meron se ne innamora, vuole avere una bici e fare il corridore. Ma è troppo piccolo e deve aspettare un bel po’ prima di gareggiare. Finché arriva la prima corsa: dura, ma la finisce. Ad Asmara, a parte un paio di mesi in cui l’attività è ferma, si corre ogni domenica, e certe settimane anche una o due volte. Finché arriva la prima vittoria, da junior. Meron ci prende gusto. Finisce il liceo scientifico, comincia a lavorare nel negozio di famiglia, continua a correre, entra nel giro delle squadre regionali e nazionali, diventa professionista in una squadra professional. Gareggia anche in Sud Africa, in Italia, in Francia, in Cina e in Kazakistan, con Nibali. Intanto apre un negozio di biciclette. “Le cose vanno bene, bici e ciclismo in Eritrea sono come gli sci e il fondo in Finlandia”.

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