Alessio Romagnoli dopo il gol allo scadere contro il Genoa (foto LaPresse)

C'è ancora calcio oltre il 90'

Gianfranco Teotino

Da Cesarini a Romagnoli, sempre più partite si decidono nel recupero. Perché? Storia e numeri

Non è finita finché non è finita, il celebre aforisma della leggenda del baseball Yogi Berra, poi via via mutuato da un po’ tutti gli sport e gli sportivi, nel calcio si sta trasformando in: non è finita perché le partite non finiscono mai. Nel weekend del  7-9 dicembre abbiamo assistito al pareggio del Cagliari con la Roma in 9 contro 11 al minuto 95, al pareggio dalla Sampdoria con la Lazio al minuto 99 dopo che i laziali erano passati in vantaggio al minuto 96, al pareggio della Fiorentina con il Sassuolo al minuto 96. Tutte reti decisive. Non è una regola, ovviamente, ma non è più un’eccezione. Il calcio cambia. È dai piccoli particolari che si giudica una trasformazione. Che è in corso. Con buona pace di chi, ancora fino a pochi anni fa, era abituato magari a lasciare lo stadio cinque-dieci minuti prima della fine della partita per evitare di restare imbottigliato nel traffico. Non è bello da dirsi, ma lo facevano spesso persino i giornalisti, quelli non in trasferta, quelli che avevano fretta di tornare in redazione, anche per dare una mano ai colleghi, “tanto abbiamo già visto tutto, alla fine che altro potrà succedere…”. Altre epoche. La segnalazione del tempo di recupero da parte del quarto uomo venne introdotta in serie A nel 1995: nella prima stagione con il nuovo sistema, dopo il novantesimo vennero segnati soltanto 7 gol su 808 totali, vale a dire la miseria dello 0,87 per cento.

 

Nel campionato in corso siamo già, dopo 15 giornate, a 27 reti su 412 e cioè il 6,55 per cento. È un’escalation continua. Per fare qualche esempio, pescando un po’ a caso: nella stagione 2000-2001 i gol oltre il 90’ furono 38 su 845, il 4,49 per cento, mentre nel 2010-11 furono 49 su 955 e cioè il 5,13. In precedenza, dalle origini fino a quasi tutto il XX secolo, l’assegnazione del recupero era empirica e molto limitata. Perciò il calcio oltre il 90’ in pratica non esisteva. Le partite risolte in extremis erano quelle in cui il gol decisivo veniva realizzato più o meno negli ultimi cinque minuti, in “zona Cesarini”, o almeno così veniva definita in Italia. Renato Cesarini era un centrocampista argentino. O meglio, era nato a Senigallia nel 1906, ma pochi mesi dopo la sua famiglia, italianissima, emigrò in Argentina e lui argentino si sarebbe sentito tutta la vita, nonostante nel 1930 la Juventus avesse deciso di riportarlo in Italia. Non era un fuoriclasse, ma una buonissima mezz’ala, tanto da fare parte della Juventus più vincente di sempre prima di quella attuale: cinque scudetti consecutivi.

  

Per anni si è parlato di “zona Cesarini”, anche se la mezz’ala della Juve segnò pochissime volte allo scadere

 

In qualità di oriundo, come si diceva allora, Cesarini vestì anche, in quegli anni, la maglia azzurra: 11 presenze e tre gol. Uno dei quali però lo fissò nella storia: 13 dicembre 1931, a Torino, Italia-Ungheria, un tiro da fuori area, improvviso, forte, non esattamente imparabile, una mezza papera del portiere, che si lasciò scappare il pallone dalle mani, ma un gol determinante, il 3-2 della vittoria finale, segnato proprio al 90’. Una settimana dopo, un giornalista, che già era abbastanza noto, Eugenjo Danese, raccontando una partita di campionato fra Ambrosiana Inter e Roma, risolta ancora al 90’, da una rete decisiva del nerazzurro Visentin, scrisse di “caso Cesarini”. Poi “caso Cesarini” diventò “zona Cesarini”: un’espressione che ancora adesso viene usata da nostalgici e anziani. Per capire di che tempi stiamo parlando, Danese un anno prima aveva sfidato a duello il portiere della Lazio Sclavi, che lo aveva colpito con un pugno nel bel mezzo di piazza Colonna, per via di un articolo sgradito che peraltro non aveva neppure scritto lui. Danese era, raccontano, un ottimo schermidore, mentre Sclavi non aveva mai preso una spada in mano: fortunatamente per entrambi, il combattimento venne subito fermato per via di una ferita al gomito riportata sorprendentemente dal giornalista. Per tornare a Cesarini, prima di quel gol allo scadere con la maglia della Nazionale, al 90’ aveva segnato soltanto un’altra volta. Non esattamente uno specialista, perciò. Ma tant’è. Oggi di certo non sarebbe diventato così famoso.

 

 

I nuovi Cesarini si alternano ormai piuttosto vorticosamente. Per restare dalle nostre parti, soltanto in questo inizio di stagione si è già parlato di zona Romagnoli, perché il difensore del Milan ha trasformato due pareggi in due vittorie all’ultimo respiro nelle partite, consecutive fra l’altro, contro Genoa (91’) e Udinese (97’). In casa Inter si è parlato di zona Vecino dopo il gol del 2-1 al Tottenham (92’), che faceva seguito alla rete decisiva nel finale dello “spareggio” Champions con la Lazio nel maggio scorso. Ma anche più genericamente di zona Spalletti per le altre vittorie oltre il limite contro Sampdoria (Brozovic 94’) e Milan (Icardi 92’). Persino l’inarrestabile Juventus ha festeggiato soltanto al 93’ (Bernardeschi) il successo sul campo del Chievo proprio al debutto in campionato. Mentre, più in basso in classifica, si segnalano la rimonta dell’Empoli sull’Atalanta da 0-2 a 3-2 completata al 92’ e il pareggio del Sassuolo a Cagliari al 99’.

 

Le squadre più forti sfruttano sino in fondo l’allungamento
dei tempi di recupero per fiaccare le gli avversari più fragili  

 

Tutti gol decisivi. Gol che oltre il 90’ modificano il risultato nella sostanza, non nella forma. Realizzati da squadre che inseguono, oppure che vogliono assolutamente vincere. Non un dettaglio. Perché uno, di primo acchito, sarebbe portato a pensare: si segna di più nel finale in quanto chi non ha più niente da perdere si butta scriteriatamente in avanti e viene trafitto in contropiede. Non è così. Sì, certo la stanchezza rende il pressing meno efficace e porta le squadre ad allungarsi, ma questo capita quando una partita è alla pari, fra due formazioni senza grandi differenze tecniche o atletiche e con la stessa voglia di ottenere risultato pieno. Invece, oltre il 90’, si segna anche contro difese schierate. L’ipotesi più probabile è che le squadre più forti riescano a sfruttare sino in fondo l’allungamento dei tempi di recupero per fiaccare le resistenze di avversari più fragili, impossibilitati a tenere oltre i novanta minuti i ritmi frenetici necessari a non subire la superiorità tecnica dei rivali. A volte però, come nel recente caso di Cagliari-Roma, è la formazione meno attrezzata a riuscire, a tempo regolamentare scaduto, a recuperare svantaggi persino importanti, di più di un gol di scarto, rovesciando così qualsiasi logica calcistica. Appunto: non è finita finché non è finita, alias non è finita perché le partite non finiscono mai.

 

Del resto, è così anche all’estero. Per restare al weekend dell'8 dicembre: in Spagna, il Valencia ha riagguantato il Siviglia al 92’, il Levante ha pareggiato a Eibar al 91’, l’Athletic Bilbao ha battuto il Girona al 92’; in Inghilterra, il Wolverhampton ha vinto a Newcastle al 94’ e l’Everton ha raggiunto il Watford al 96’. Un fenomeno, quello dei gol last minute, già registrato pure ai Mondiali di Russia: se si considerano quelli messi a segno dopo l’85’, addirittura il 17,47 per cento del totale delle reti realizzate nei tempi regolamentari.

 

Naturalmente, va tenuto conto che il Var ha aumentato i tempi di recupero in modo rilevante. In Premier League, dove il Var ancora non c’è, anche se gli extra time sono sempre stati mediamente più lunghi che nel resto d’Europa, la percentuale dei gol oltre il 90’ scende al 5,80 per cento, rispetto al 7,27 della Liga, al 6,66 della Bundesliga e al 6,55 della serie A.

Un ricorso ancora più esteso e frequente del Var, peraltro auspicato da quasi tutti, è destinato ad aumentare ulteriormente le interruzioni della partita e quindi i prolungamenti allo scadere dei due tempi. Per ora, l’impressione è che al video si perda più tempo di quanto poi ne venga effettivamente recuperato. La durata delle partite è un’entità sempre più indefinita. Un recente studio ha indicato un’enorme differenza fra il campionato europeo in cui il pallone resta più in gioco, la Svezia, e quello in cui ci sono più pause, il Portogallo: 60,4 contro 50,9 per cento. Vuol dire 9 minuti di calcio giocato in più o in meno.

Sono tutte ragioni che rendono ormai urgente una riforma indispensabile a rendere il calcio un po’ meno diseguale: l’introduzione del tempo effettivo.

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