foto tratta dal profilo Twitter del Southampton

La Klopp-mania conquista Southampton. In panchina arriva Hasenhüttl

Giovanni Battistuzzi

L'Alpen-Klopp è il nuovo allenatore dei Saints. Chi è il tecnico austriaco che cercherà di salvare i biancorossi di Manolo Gabbiadini

Rispetto agli altri i suoi 51 anni lo fanno sembrare un pivello. E anche il suo modo di fare sembra quello di un ragazzino. Troppo esagitato per essere un gentleman alla Manuel Pellegrini (West Ham, 12esima in classifica) o alla Claudio Raineri (Fulham, ultima). Poi quella tuta sempre addosso, così diversa dall'impeccabile nodo alla cravatta di Roy Hodgson (Crystal Palace, 15esima), rappresentante da panchina dall'aplomb inglese. Per non parlare di quel modo di fare un po' caciarone, così sguaiato anche rispetto a Neil Warnock (Cardiff, 16esima), non certo un lord, ma quantomeno perfetto in quanto a humor inglese. In Premier League la lotta per non retrocedere sembra una questione tra allenatori navigati, perché ci vuole una bella esperienza per galleggiare in un campionato nel quale in poco più di dieci punti sono ci sono dieci squadre di livello più o meno simile e tre posti che conducono nella seconda serie. Soprattutto se si viene chiamati con lo scopo di tentare di arginare una situazione complicata con una squadra che non vince dal primo di settembre. A tanto era arrivato il Southampton con Mark Hughes alla guida: nove punti in quattordici giornate, terzultimo posto, una sola vittoria. Depressione profonda per una squadra che, almeno a inizio stagione, puntava all'Europa League. Per non sprofondare in Premiership, la serie B inglese, non bastava un allenatore navigato, capace di tirare fuori il meglio da una squadra. Serviva un distruttore, uno impavido, forse un po' matto, capace di trovare godimento e ispirazione nelle situazioni disperate. Uno come Ralph Hasenhüttl insomma. 

 

 

Mai prima d'ora un tecnico austriaco si era seduto su di una panchina inglese. Nemmeno ai tempi in cui, erano gli anni Venti-Trenta, l'Austria era dove si giocava il miglior calcio europeo (ma non ditelo agli inglesi), oltremanica avevano pensato di affidare un club a un ex asburgico. Ora che invece l'Austria è divenuta periferia del pallone mondiale, il buco è stato colmato. Sarà che siamo in un momento storico dove la Klopp-mania si sta diffondendo nel Regno Unito, sarà che l'Inghilterra è sempre meno convinta di essere il cuore pulsante del calcio globale, sarà soprattutto che uno così è davvero capace di tutto, anche di creare, da un progetto che sta fallendo, qualcosa di grande.

 

Hasenhüttl non trema, non sente il peso della storia, se ne frega. D'altra parte per uno che è riuscito a farsi amare in Germania, nonostante fosse austriaco, che è riuscito a farsi voler bene nonostante allenasse la squadra più detestata della Bundesliga – il RasenBallsport Lipsia è l'emanazione calcistica della Red Bull, una società, almeno secondo la quasi totalità dei tifosi germanici, che non dovrebbe esistere, perché nata nel 2009 dal niente –, non sarà motivo di ansia o preoccupazione. Anche perché Hasenhüttl ha visto ben di peggio che una squadra, finanziariamente solida e con un ottimo settore giovanile, messa male in Premier League.

 

"Sono stato in una palude con le sabbie mobili alla gola. Ne sono uscito. Non sarà il debutto in Bundesliga a farmi paura", disse ai primi di agosto del 2015 alla Bild. Mancavano pochi giorni alla prima giornata del campionato tedesco 2015/2016, la terza alla guida dell'Ingolstadt, la prima della storia del club nella massima divisione. Finì undicesimo in classifica giocando un calcio eccezionale, meritandosi l'appellativo di Alpen-Klopp, il Klopp delle Alpi, la versione austriaca dell'allenatore che nel 2010/2011 e nel 2011/2012 conquistò due Bundesliga con il Borussia Dortmund consecutive e che nel 2013 raggiunse la finale di Champions League (poi persa contro il Bayern Monaco per 1-2).

 

Come Klopp Hasenhüttl vuole una squadra che corre molto, che pressa alto, che sia capace di sacrificarsi. Come Klopp, Hasenhüttl si muove molto in panchina, urla, esulta, sa come rispondere a tono ai giornalisti e come, con una battuta, sviare a domande non gradite. Come Klopp sa che un allenatore non sarebbe nulla senza i suoi giocatori e per questo li ascolta, ne psicanalizza l'anima e i sentimenti, sa tirare fuori tutto quello che hanno.

 

Similitudini che entrambi riconoscono e piacciono a entrambi.

 

Di Klopp, Hasenhüttl ha detto: "Penso che apprezziamo e applichiamo una filosofia calcistica simile: vogliamo che la nostra squadra giochi ad alta velocità, vogliamo che i nostri ragazzi corrano coralmente, pressino e rendano il gioco più vivace e vario, che stimolino i tifosi". Di Hasenhüttl Klopp ha detto: "E' un buon allenatore. Le squadre giocano un calcio molto vivace, hanno un approccio molto aggressivo, pressano bene e sono fantasiose. Mi assomiglia? No, lui è più alto e un bel uomo".

 

Se nella sostanza i due si assomigliano parecchio, nella preparazione della gara non ci sono mondi più differenti. Klopp è un occupatore delle fasce, crede ciecamente che una partita di calcio sia una partita a scacchi che si vince sfondando al centro grazie all'occupazione delle zone periferiche della scacchiera. Hasenhüttl crede nell'esatto contrario: il suo 4-2-2-2 è un pungolo che cerca di superare le difese avversarie sfruttando le zone centrali, sfruttando poi l'avanzata dei terzini per sfruttare al meglio il contropiede.

 

Fratelli d'intenti divisi dalle esperienze giovanili e dallo studio.

 

Klopp è partito da Magonza, vecchia università, seppur in decadenza, del bel calcio tedesco. E' stato allevato da Wolfgang Frank, ha iniziato lì ad allenare prima di passare al Borussia Dortmund, dove ha iniziato a vincere. Ha mescolato il meglio del metodo tedesco, applicando la lezione olandese del calcio offensivo. Hasenhüttl invece dopo aver vinto in Austria da calciatore è passato per il Belgio prima di approdare nella provincia calcistica tedesca. E lì si è formato apprendendo rudimenti di calcio rude e difensivo, non disdegnando però le lezioni del calcio danubiano del passato. Il suo modo di giocare è la somma di qualcosa che non ha visto ma ha apprezzato e amato e di quello che ha giocato. Klopp è partito dalla seconda divisione, in tre anni e mezzo è riuscito ad arrivare in Bundesliga e lì è riuscito a convincere i club a credere nel suo progetto. Hasenhüttl invece è partito dal niente, si è dovuto arrangiare con quello che aveva, ha dovuto giocare di fantasia, ha costruito e disfatto interi progetti tattici, sino a quando ha avuto la possibilità di plasmare a suo piacimento una squadra. E' successo a Lipsia.

 

La squadra griffata RedBull aveva appena conquistato la promozione nel massimo campionato tedesco quando sulla sua panchina si sedette l'austriaco. Arrivò con le idee già chiare: la squadra va bene, servono un centrale di centrocampo di corsa e un'attaccante veloce. Arrivarono Naby Keïta, che all'epoca non era nessuno, e Timo Werner, un ragazzetto che prometteva tanto, che segnava poco e che sino ad allora aveva giocato soltanto sulle fasce. In pochi mesi li trasformò in due giocatori eccezionali, l'RB Lipsia divenne una squadra capace di mettere in difficoltà chiunque, di battere il Borussia Dortmund, far soffrire il Bayern Monaco. Concluse al secondo quella Bundesliga. Si qualificò alla Champions League. Non male per una neopromossa.

 

 

Non male per uno che su di una panchina ci è finito un po' per caso, un po' per disperazione, sicuramente perché non c'era niente di meglio in giro.

 

Quando il 4 ottobre 2007 Werner Lorant rassegnò le dimissioni dal SpVgg Unterhaching i tifosi pensarono che sarebbe finito tutto malissimo. Il "maestro" che riuscì a portare in Europa il Monaco 1860 e che aveva promesso il rilancio del club se ne andò sbattendo la porta. "Non si può lavorare così. Le promesse fatte dalla dirigenza non sono state rispettate, creare qualcosa di buono in questa situazione è impossibile". La squadra era all'undicesimo posto in Regionalliga (la lega regionale tedesca), a dieci punti dalla vetta e un punto sotto il minimo indispensabile per prendere parte alla 3. Liga che sarebbe stata introdotta l'anno successivo. La dirigenza provò a contattare diversi allenatori ricevendo solo rifiuti. Alla fine decise di dare fiducia al vice di Lorant. Hasenhüttl doveva essere un intermezzo, divenne una necessità. Perché "una squadra che giocava così a pallone era dall'ultima stagione in Bundesliga che non si vedeva", raccontò uno dei capi ultras del Unterhaching quando Hasenhüttl raggiunse il massimo campionato tedesco con l'Ingolstadt.

 

E quando nel gennaio del 2011 si trasferì al VfR Aalen fece lo stesso. Trovò una squadra quasi spacciata, la condusse alla salvezza e poi, l'anno seguente, alla promozione in seconda divisione. Sembrava un'impresa impossibile la permanenza in 2. Bundesliga per una squadra che aveva la metà del monte ingaggi di qualsiasi altro club, che non aveva soldi da investire nel mercato e aveva venduto i suoi due migliori atleti. Finì nona. Il segreto? "Nessun segreto, il calcio è tecnica, tattica e corsa. Le prime due si possono insegnare, la terza la si prepara, il resto sono chiacchiere. Se ti fai ascoltare puoi trasformare una bagnarola in un transatlantico".

 

Hasenhüttl si è fatto capire ovunque è andato, lo farà pure in Inghilterra. "L'inglese lo so abbastanza. Ma so spiegarmi anche a gesti".