L'allenatore del Liverpool Jürgen Klopp (foto LaPresse)

Jürgen Klopp, il tedesco che ha conquistato l'Inghilterra

Giovanni Battistuzzi
L'allenatore è arrivato al Liverpool a ottobre e in pochi mesi ha conquistato i tifosi nonostante i risultati siano ancora incostanti e abbia perso la finale della Coppa di Lega. Ritratto di un allenatore atipico che conquistò Dortmund con un litro di birra.

Una smorfia di rabbia, una bottiglietta stritolata con la mano destra e poi scagliata sul prato di Wembley, dopo 120 minuti di avanti e indietro nella decina di metri concessi a un allenatore davanti alla panchina. Jürgen Klopp il 28 febbraio 2016 aveva la faccia di uno pronto a bastonare chiunque dopo il terzo rigore che i suoi si erano fatti parare da Wilfredo Caballero, detto Willy, portiere del Manchester City, numero 13 e 19 partite in due anni nei Citizen. Per una sera eroe. Il Liverpool sconfitto dagli odiati cugini degli odiatissimi Red Devils, quel Manchester United che veste dello stesso rosso, rosso vergogna il loro però, almeno per la Kop, la curva dei Reds. Il Liverpool che non vince dal 2012: l’ultimo successo la Coppa di Lega, la stessa che il City sta per alzare al cielo quando Klopp viene chiamato sotto la curva. E sono applausi, cori di incitamento: “La vittoria arriverà, con te alla guida la vittoria arriverà”. Klopp soffia un bacio, alza le mani, saluta e rientra negli spogliatoi dopo essere rimasto ancora un attimo a osservare i suoi tifosi.

 



 

Il Liverpool è settimo in classifica, ha 16 punti dalla capolista Leicester, rischia di non qualificarsi per l’Europa League. Klopp è subentrato a Brendan Rodgers il 9 ottobre 2015, ha ottenuto risultati altalenanti – 7 vittorie, 5 pareggi e 6 sconfitte in campionato – e soprattutto non è ancora riuscito a riportare all’Anfield Road, lo stadio dove giocano i Reds quello spettacolo calcistico promesso ai tifosi e che a Liverpool è da troppo che manca. “Ci vorrà tempo”, ha detto qualche settimana fa. Chiedere tempo a chi aspetta da 34 anni di vincere un campionato sembra una bestemmia. Eppure la Kop sembra volerglielo concedere. “Con te alla guida la vittoria arriverà”. C’è fiducia, c’è rispetto, c’è soprattutto un allenatore che in pochi mesi è riuscito a farsi amare come il predecessore in tre anni non era mai riuscito. Perché lui è il “Normal One”, “una scossa di energia in un ambiente e in un calcio che ormai scosse non ne dà più da troppo tempo”, ha detto alla Bbc uno dei capi della tifoseria.

 

Rapporto strano quello che questo tedesco che tedesco non sembra affatto, latino per atteggiamento ed esuberanza, riesce a instaurare con i propri tifosi, soprattutto quelli che fedeli, esigenti, intransigenti lo sono di più. Un rapporto che esula dai risultati, che non dipende dall’andamento della squadra, ma da una capacità istrionica e spontanea, esagerata e un po’ populista di considerare il calcio dalla tribuna, dalle curve. “Ben venga il calcio in televisione, gli anziani aumentano e anche loro devono aver l’occasione di divertirsi con il calcio – disse alla Bild un paio di anni fa quando era ancora alla guida del Borussia Dortmund a proposito della richiesta di rinvio di una partita per esigenze televisive – ma se per la tv si devono sfavorire i ragazzi che escono di casa, si fanno i chilometri per sostenerci, allora dico: nemmeno per sogno, anzi, proprio per il culo”. Risate in conferenza stampa, la domenica successiva tre minuti di applausi e “Jürgen-Jürgen-Jürgen” dalle tribune.

 

 

Tribune che ovunque è andato lo hanno omaggiato. Come è accaduto a pochi durante la storia del calcio. Come accade alle bandiere, ai vincenti. E poco importa se lui è un vincente atipico, uno che in carriera ha visto spesso gli avversari alzare coppe mentre doveva consolare i propri giocatori. Wembley come continuazione di quello che è stato al Borussia: finali perse, vittorie rimandate e un filo rosso che unisce la Vestfalia a Londra: la chiamata sotto la curva.

 

Quando il 23 maggio 2015 le squadre entrarono in campo, il Westfalenstadion, lo stadio di Dortmund, smise di incitare per un attimo i propri giocatori. Le bandiere continuarono a muoversi, le sciarpe a essere rivolte al cielo. Ma il solito grido di incitamento, il solito inno che anticipa l’inizio della partita venne superato da un’altra musica, da altre parole. E tutto venne messo in secondo piano da un’immagine e due scritte che salivano piano piano dalla parte bassa della curva. Danke e Jürgen stavano ai lati di un volto che i tifosi del Borussia Dortmund conoscevano bene: un uomo biondo, occhialuto, applaudente. La foto di Jürgen Klopp, il loro allenatore. Si giocava Borussia Dortmund - Werder Brema, ma quanto succedeva in campo contava poco o nulla, non interessava a nessuno, nonostante i gialloneri si giocassero l’accesso ai preliminari di Europa League. A contare era altro, ed era fuori dal rettangolo di gioco, in panchina. Perché su quella panchina si era appena seduto per l’ultima volta Jürgen Klopp.

 

 

Finì 3-2 per il Borussia, un risultato che consegnava l’accesso all’Europa League ai gialloneri dopo una stagione bizzarra, iniziata da candidata alla vittoria del campionato, dopo la finale di Champions dell’anno precedente, e continuata, sconfitta dopo sconfitta, in fondo alla Bundesliga, poi in una rincorsa affannata, disperata, vincente all’Europa. Klopp fu chiamato a gran voce. Ci furono oltre cinque minuti di applausi: l’ultimo saluto a chi aveva regalato loro due campionati dopo quasi un decennio di sconfitte. Un rapporto iniziato con sospetto, diventato prima acredine, poi amore, infine amore incondizionato. Klopp über alles.

 

Un rapporto che per spiegarlo bisogna ritornare alla stagione 2008-2009. Anzi a quella successiva.

 

Nell’estate del 2008 Klopp viene ingaggiato dal Dortmund, da quasi sconosciuto. Aveva allenato otto stagioni il Mainz, dove aveva giocato per dodici anni prima di sedersi in panchina. Era riuscito a portarlo in Bundesliga, a salvarlo, a centrare la qualificazione in Coppa Uefa, per poi però cadere di nuovo in seconda divisione e fallire la promozione. La prima stagione si trascina tra risultati discreti, una squadra che corre e diverte e tonfi inaspettati. Sesto in campionato e fuori dalle coppe europee. L’anno successivo inizia ancora peggio: sconfitta per 4-1 fuori casa con l’Amburgo alla seconda giornata, per 1-5 contro il Bayern Monaco in casa alla quinta, per 0-1 con lo Shalke 04 in casa alla sesta. I tifosi fischiano, chiedono a Klopp di dimettersi. La curva lancia ortaggi al tecnico, lui applaude ironico. Il capo ultrà lo affronta, lui lo guarda e gli dà appuntamento fuori dallo stadio. Non passa nemmeno per gli spogliatoi e aspetta i tifosi, nonostante la dirigenza voglia vietargli l’incontro. Quello che succede è raccontato un anno dopo dalla Bild. I due si incontrano, urlano entrambi, si rischia lo scontro fisico. Klopp grida al capo ultrà di essere uomo, tirare fuori le palle e continuare a sorreggere la squadra. Gli viene risposto che l’unico modo che ha per continuare a essere uomo è quello di dimettersi. L’allenatore risponde che l’unico modo che ha lui di essere uomo è di affrontarlo in birreria. Una sfida all’ultima goccia. Un litro di birra, chi ci mette meno tempo a consumarla imporrà all’altro la propria visione del calcio. Il direttore sportivo del Borussia è allibito, vorrebbe che l’allenatore lo seguisse sul pulmann della squadra, lui rifiuta e va a sfidare il rivale. Vince. Sarà tregua armata. Klopp pretende che la curva smetta con i fischi e supporti i gialloneri almeno sino alla pausa invernale. Da lì saranno 10 risultati utili consecutivi, poi il quinto posto finale, la qualificazione alla Coppa Uefa. La tregua diventa amore, rispetto assoluto, passione totale. Klopp guida il Dortmund alla vittoria di due campionati, conquista una coppa di Germania, raggiunge la finale di Champions League; perderà ma verrà comunque applaudito come un eroe.

 


 

Jürgen Klopp durante i festeggiamenti della prima Bundesliga conquistata con il Borussia Dortmund


 

Klopp ora cerca di replicare in Inghilterra quanto fatto in Germania. Per ora giocatori, presidenza e tifoseria sono tutti dalla sua. “Sono onorato di poter essere qui. E’ tempo di lavorare per cercare di far tornare il Liverpool nelle posizioni che gli competono in campionato e in Europa”, ha detto nella sua prima conferenza stampa. “E’ tempo soprattutto di tornare a rendere i tifosi fieri di supportare questa squadra”, ha aggiunto alla vigilia della sfida europea poi vinta con l’Augsburg.

 

Agli ottavi incontrerà i rivali meno amati, quel Manchester United guidato da Louis Van Gaal, l’esatto suo opposto. Lui sacchiano; l’altro che disse di Sacchi che “è stato un allenatore vincente e furbo, perché presentarsi come innovatore dopo aver copiato il modo olandese di giocare adattandolo al catenaccio, è un atto di furbizia”. Lui esuberante e simpatico, che si è sempre fatto amare dai giocatori per come parla con loro, per come gli spinge a dare il massimo; l’altro burbero, austero, incapace di farsi voler bene dai suoi uomini, incapace soprattutto di provare “sentimenti umani verso coloro che gli stanno attorno”, parola di Hristo Stoichkov. Lui che studia tutto, che considera la tattica l’unica via per la vittoria; l’altro che studia tutto, che considera la tattica l’unica via per la vittoria. Simili in questo, se non fosse che Klopp la disegna attorno agli uomini che ha, che non dorme per cercare di inserire i singoli in un gioco corale; l’altro che invece la mette in pratica come fosse Bibbia, come un credo immodificabile. Lui che “non faccio nulla di speciale, metto pepe al culo ai miei uomini, perché se non c’è motivazione non ci saranno mai risultati”; l’altro che invece basta lui, basta il nome, nessuna discussione, un solo modo e un solo insegnamento, quello del Marchese del Grillo: “Io so’ io e voi non siete un cazzo”.