Meo Sacchetti (foto LaPresse)

L'Italia del basket e l'arte di arrangiarsi di coach Sacchetti

Umberto Zapelloni

La lezione di Meo. L'allenatore della Nazionale italiana si racconta. Dall’infanzia “povera ma bella” alle vittorie in panchina. Obiettivo: il Mondiale in Cina. “Riportiamo lo sport a scuola”

“La vita molto presto mi ha detto arrangiati”. E Meo Sacchetti si è saputo arrangiare benissimo, un po’ come Gigi Riva, da cui ha preso in prestito una frase che racconta tanto in poche parole. Dalle baracche di Altamura alla panchina della Nazionale di basket il passo non poteva essere tanto breve. Tutto quello che ha avuto se lo è guadagnato con il lavoro, il sacrificio e, quando giocava, con il talento, unito a quella velocità di piedi che per uno grande e grosso come lui faceva la differenza in campo.

 

 

 

La storia di Meo, Romeo all’anagrafe, è quella di un’immigrazione al contrario. I suoi bisnonni a metà dell’Ottocento partirono dal bellunese per andare a lavorare il porfido nelle cave romene e soltanto suo padre, quando il comunismo impose la scelta tra uno dei due passaporti, decise di tornare indietro per non perdere quello italiano. “Sono l’unico della famiglia nato in Italia”. Era l’agosto del 1953 e la famiglia Sachet si era appena trasformata in Sacchetti per colpa di un funzionario in una caserma di Udine. In quella che lui chiama baracca, sua moglie capannone e noi oggi definiremmo campo profughi o centro accoglienza, nasce il piccolo Romeo, fratellino di Francesco, Gilda e Virginia. Romeo come il fratello che non ha mai conosciuto, nato negli anni Quaranta sui monti della Romania in una casa dove ogni tanto andavano a raschiare la porta i lupi e andatosene subito in paradiso. Inevitabile che mamma Caterina ripartisse da quel nome per il suo ultimo figlio, rimasto orfano di padre quando aveva appena 6 mesi. Una nuova ripartenza. Questa volta da Novara. Senza una bicicletta, ma con tanto affetto. “Tutti gli anni chiedevo una bicicletta e mia mamma mi diceva se sarai promosso. Io studiavo, ma la la bici non arrivava mai. Solo più tardi capii che mancavano i soldi per comprarla. Ma io sono cresciuto senza mai invidiare lo scarpe o il giubbotto di un amico. Non guardavo a quello che non potevo avere, ma a quello che avevo io Ho avuto una vita piacevole e poi mi sono guadagnato tutto quello che ho avuto. Posso dire all’inizio di avere avuto una vita povera, ma bella. Una vita in cui non mi è mancato nulla grazie alle coccole che tutti riservavano al più piccolo. E alla fine non mi è mancata neppure la bici, perché poi usavo quella di mia madre…”.

 

Il pallone da basket fu la prima cosa bella della sua vita. Una pianta di glicine nata un po’ storta il primo canestro. Anche se la scintilla è scoccata tardi, attorno ai 15 anni, dopo aver visto una partita in tv tra Pesaro e Napoli. Giocava a calcio, faceva il portiere. “Ero anche bravino nella squadra dell’oratorio”. Tolti i guanti, il basket fu una folgorazione. Ma gli inizi furono duri, gli dicevano che era solo potenza, che non sarebbe mai diventato un giocatore. Anche la mamma cercava di dissuaderlo: “Che cosa vai a giocare a fare, tanto perdi”. Mamma Caterina quando c’era da sgridarlo gli parlava in romeno e gli diceva “Sei proprio come tuo padre!”. Ci ha messo un po’ a capire la serietà delle sue intenzioni. Solo quando ha visto la fotografia del figlio su un giornalino rimasto sulla scrivania di uno degli uffici in cui faceva le pulizie ha capito che non sarebbe stato più solo un gioco.

 

Riccardo Sales, il Barone, uno dei suoi tanti maestri, lo chiamava il Nureyev dei canestri perché nonostante quel corpaccione con due polpacci grandi come cosce, sul campo sembrava davvero danzare. Sacchetti è uomo dalle cento vite ma da un credo solo: la sua pallacanestro deve essere soprattutto piacevole. Per chi la gioca, per chi la guarda e per chi la allena. “È logico che si gioca per vincere, ma per per me è importante fare un gioco che ti può piacere. Ho sempre visto il basket come una specie di atletica con il pallone e mi piace vedere questa cosa nelle mie squadre. Mi piace vedere giocatori pensanti che non restino imbrigliati negli schemi, che decidano con la loro testa”. Il suo è un basket veloce, un basket in cui l’attacco viene prima della difesa, run & gun, corri e tira (“Più volte tiri, più punti fai”) in cui il playmaker ha la stessa importanza della benzina in una Formula 1. “È il ruolo più bello di tutti. Ho sempre sognato di fare il playmaker, d’altra parte sono cresciuto di fianco a Caglieris a Torino, un giocatore da cui imparavi solo a guardarlo. Sono loro ad avere in mano la squadra, a decidere”. Travis Diener e Gianmarco Pozzecco sono stati i migliori che ha allenato. Gli uomini a cui affidava le chiavi della squadra. Lui la metteva in moto, a loro toccava guidarla. Liberi e belli, come tutte le squadre di Meo, uno che per necessità ha dovuto imparare a fare a meno dei pivot. “Per problemi di budget ci mancava sempre il lungo bravo e tosto là in mezzo”. Una pratica che gli viene utile in Nazionale dove i lunghi certo non abbondano.

 

Il pallone da basket fu la prima cosa bella della sua vita. Un glicine un po’ storto il primo canestro. La scintilla
a 15 anni

I primi canestri importanti li segna ad Asti, poi a Torino dove incontra il professor Guerrieri, a Bologna sponda Gira e quindi a Varese. Con i club ha vinto poco. “No, bisogna esseri sinceri non ho vinto proprio niente”, puntualizza ridendo. Ma si è rifatto con la Nazionale. Un argento olimpico a Mosca 1980, un oro europeo a Nantes 1983 nell’Italia di Sandro Gamba dove i suoi compagni di squadra si chiamavano Meneghin, Marzorati, Caglieris, Villalta, Bonamico, Brunamonti, Gilardi, Riva, Costa, Vecchiato e Tonut. Gente vera. Gente che si sarebbe buttata nel fuoco per difendere i suoi compagni. Uomini da battaglia, ma anche di talento. Sapevano fare squadra e anche oggi non andrebbero a tavola affondando il cervello in un telefonino. Il Sacchetti allenatore ha provato anche questa crociata. No al telefonino in spogliatoio. Quando si è accorto che in Nazionale nell’intervallo i suoi ragazzi smanettavano sulla tastiera è diventato una furia. “Non esiste. Sui cellulari a tavola ho perso la battaglia, avevamo delle regole, ma poi ho visto che i giocatori li usavano di nascosto durante il pranzo e allora ho dato il permesso. Ma durante una partita nello spogliatoio tra il primo e il secondo tempo non cambierò mai idea. Non mi metterò a fare la guardia, ma credo che il messaggio sia passato, alleno ragazzi intelligenti”. Telefonini spenti e cervello collegato.

 

In panchina con i club, invece, ha vinto tutto, sognando di proseguire in azzurro. Ha portato Sassari a uno storico triplete nel 2015. Uno scudetto formato famiglia: lui in panchina, suo figlio Brian in campo. “Parlate sempre del triplete, ma io sono molto orgoglioso anche di quello che ho fatto nelle categorie inferiori, una trafila che mi ha aiutato a diventare forse un allenatore migliore del giocatore. E comunque al Sacchetti giocatore sarebbe piaciuto il Sacchetti allenatore. Molto. Avrebbe apprezzato la schiettezza e l’idea di basket… Io ho avuto grandi tecnici: Guerrieri, Gamba, Bianchini, Sales, Zuccheri che a Bologna mi ha trasformato da ala in guardia. Ho cercato di prendere qualcosa da tutti, rimanendo molto me stesso. Certo, l’impronta di Guerrieri è stata forte, ma lui l’ho avuto da giocatore e poi gli ho anche fatto da vice”.

 


 

Illustrazione di Davide Barco


 

Dall’agosto 2017 si divide tra Cremona e la Nazionale. Un doppio impegno che lo inorgoglisce più che spaventarlo. “Allenare la Nazionale è stimolante e l’impegno tecnico aumenta solo nelle settimane delle partite, ma a me ha dato stimoli da tutte e due le parti, anche per allenare a Cremona. E Cremona è orgogliosa di avere lo stesso allenatore della Nazionale”. Le strane regole del basket però mettono in conflitto i calendari delle Nazionali con quelli dei club impegnati in Eurolega oltre che con la Nba. Così Sacchetti ogni volta si trova a fare i conti con giocatori che non può convocare. Immaginatevi se a Mancini dicessero: devi fare la squadra senza i giocatori di Juve, Napoli, Inter e Roma. Ne nascerebbe un’interrogazione parlamentare. Sacchetti non può chiamare Belinelli e Gallinari; Datome e Melli; oltre ad avere un accordo con Milano per non svuotare la panchina di Pianigiani dove siedono Cinciariani, Fontecchio, Della Valle, Burns e Brooks. Già gli italiani che giocano minuti di qualità sono pochi (tra i 50 più impiegati in serie A ci sono solo tre convocabili), se aggiungiamo gli infortunati e tutti gli assurdi paletti piantati dalla lite Fiba/Eurolega, ecco che ogni convocazione per il ct è un po’ come una sfida di “Giochi senza frontiere”.

 

 

“Ormai mi sono abituato. Lo sapevo prima di incominciare e quindi non posso lamentarmi. E poi ho trovato molte risorse in altri giocatori. Ho avuto anche delle belle sorprese. Vorrebbero giocare tutti 40’, ma hanno capito che anche solo indossare la maglia azzurra deve essere motivo di orgoglio. No, per ora non ho pensato che se poi arriveremo ai Mondiali dovrò fare dei sacrifici per far posto a chi oggi non può essere convocato. Penso sempre solo alla prossima partita. Poi una volta qualificati ci siederemo attorno a un tavolo e parleremo”. E se sarà un problema, sarà comunque un bel problema. Magari dovrà ritrovarsi a bocciare suo figlio Brian (come Brian Winters, un super tiratore) il giocatore a cui ha sempre chiesto qualcosa in più che agli altri, tanto che da ragazzino mamma Olimpia voleva toglierglielo di squadra. “A Brian ho sempre chiesto più che agli altri, ai propri figli si chiede sempre qualcosa in più. Non gli ho mai regalato niente, prima a Sassari e ora in azzurro. Sono contento quando mi dicono che è un bravo ragazzo, educato. Meglio ancora di quando mi dicono che è un bravo giocatore”. Insieme hanno vinto tutto a Sassari. Insieme difficilmente andranno a un concerto considerando che la musica è l’unica cosa che li divide totalmente.

 

  

La regola assurda che mette in conflitto i calendari delle Nazionale con quelli dei club impegnati in Eurolega e Nba

Sacchetti ha scritto anche un libro titolandolo “Il mio basket è di chi lo gioca”. Uno slogan che piace molto anche a quelli del calcio. Quasi un autogol per un allenatore considerando che spiega così quel titolo: “Il basket è di chi lo gioca nel senso che è più dei giocatori che degli allenatori. Non ho mai visto una squadra con dei giocatori scarsi vincere qualcosa di importante. L’allenatore deve fare le scelte, capire che tipo di giocatori ha a disposizione per realizzare le sue idee, e soprattutto non fare danni. Non c’è una strada certa per sedersi in panchina. C’è chi vi arriva dopo essere stato giocatore, chi no. Anche chi non ha giocato può diventare un grande allenatore così come ci sono grandi giocatori che sono diventati super allenatori. Abbiamo gli esempi di due grandi tecnici come Obradovic da una parte e Messina dall’altra. A decidere più che il passato sono la passione e le capacità”. Dalla sua doppia panchina, Sacchetti si sta godendo questo campionato: “È più bello e combattuto del previsto. Ci sono due squadre sopra le altre come Milano e Venezia, ma poi ce ne sono 4/5 in lotta per il terzo posto. Ci sono state anche delle sorprese, risultati strani. Se guardo al campionato posso dire che il basket italiano non sta male. Ma poi ci sono i problemi economici di qualche squadra come Cantù e soprattutto il problema dei palazzetti. Ma credo che questo sia un problema di tutto lo sport italiano. Dobbiamo partire dalle palestre nelle scuole, cominciare lì, rendere obbligatorio lo sport fin dalle elementari. L’ho sempre sostenuto, dobbiamo partire dallo sport nella scuola. Noi giocavamo in strada, negli oratori…”. Oggi i ragazzi giocano alla PlayStation. La ricetta è semplice. Può sembrare banale, ma realizzarla non sarà facile. Roba da master chef. Meglio pensare al Mondiale dove l’Italia non si qualifica dal 2006. La Cina è davvero vicina, battuta dopo 12 anni la Lituania, ormai manca solo una vittoria nelle prossime tre partite, anche perché essendo diventate 32 le squadre ammesse alla fase finale sarebbe davvero grave non esserci. E poi con Sacchetti il divertimento sarebbe assicurato.

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